Regia di Olivier Marchal vedi scheda film
“Un giorno i fantasmi suoneranno alla tua porta e tu dovrai seguirli e ti troverai di fronte a tutte le schifezze che hai fatto!” Non usa mezze parole l’agente Eve Verhagen con il suo superiore Denis Klein, capo della squadra antibanditismo. Klein (un immenso Depardieu che, alle prese con un ruolo che avrebbe potuto facilmente scadere nello stereotipo, gli conferisce una forza, una mimetica ed una credibilità esemplari) è un mediocre ed ambizioso opportunista che aspira al potere e, per diventare quel “grande poliziotto che volevi essere e che non sarai mai! (le sprezzanti parole gli vengono dette dalla moglie), è disposto a tutto, in una perfetta incarnazione dei troppi potenti di oggi. L’altra faccia del potere, direi speculare a Klein, è rappresentata da Robert Mancini, interpretato da un sublime e sottile André Dussollier, subdolo direttore della Polizia Giudiziaria e prossimo alla promozione, molto abile e scaltro nel districarsi, a volte semplicemente con il silenzio, tra gli intrallazzi e le beghe delle alte sfere della politica per conseguire i suoi scopi, senza peraltro sporcarsi mai le mani, a differenza di Klein (emblematico il suo laconico “Cosa volevi che facessi” rivolto ad un furibondo Vrinks). Per il posto lasciato vacante da Mancini è in lizza, oltre a Klein, Léo Vrinks (monumentale Daniel Auteuil, uno degli attori più completi che ci siano in circolazione, capace di passare con una facilità impressionante da ruoli comici a quelli altamente drammatici come questo). Quel posto sarà di chi arresta una banda di rapinatori che da mesi svaligia furgoni portavalori per le strade di Parigi. Vrinks e Klein un tempo erano amici: ora, complice anche una donna, Camille (un’intensa Valeria Golino) prima compagna di Klein, quindi moglie di Vrinks, sono rivali. Vrinks, capo della squadra antirapina non è uno stinco di santo. Nasconde l’omicidio compiuto da un suo informatore e di cui è stato involontario testimone oculare per ottenere la soffiata decisiva nell’arresto della banda. Quella scelta però gli porterà conseguenze nefaste. STREPITOSO polar dagli espliciti rimandi all’opera di Michael Mann (“Heat” in particolare), insieme a Sergio Leone e Michael Cimino tra i registi prediletti da Olivier Marchal. “36” è IL film che riconcilia con il Cinema. Marchal attinge dalla sua esperienza di poliziotto e costruisce un poliziesco dall’implacabile crescendo narrativo e dal dirompente impatto visivo. Nonostante qualche minima forzatura narrativa e melodrammatica che si perdonano volentieri, “36” ha molti punti di forza. La sceneggiatura densa, articolata, complessa e stratificata in cui le dolorose, spesso tragiche vicende umane dei protagonisti ben si intrecciano con le sporche e pericolose questioni lavorative. I caratteri credibili ed autentici, struggenti e malinconici, delineati con encomiabile lucidità ed umanità: sorprendono in particolar modo, in un’opera del genere, quelli femminili, spesso purtroppo relegati a puri ruoli di contorno, su tutti la dolce e premurosa prostituta Manou e la sopra citata coraggiosa Eve Verhagen che rinuncia ad una promettente carriera perché letteralmente schifata da quello che è costretta a passare sotto silenzio. L’atmosfera plumbea, crepuscolare e cupa, a volte quasi soffocante, pregna di amarezze, chiaroscuri, sconfitte, delusioni, tradimenti, solitudini, ferite e sofferenze. L’ambientazione crudele, spietata, amorale, dominata da leggi e coordinate di comodo e di facciata, da squallidi compromessi ed ipocriti opportunismi, da volgari bassezze e tradimenti, da inqualificabili bastardate e divoranti interessi di parte che cancellano, quasi sempre, qualsiasi residua traccia di amicizia, stima o collaborazione, da corruzioni e complicità che si fanno sfacciatamente beffa del rispetto delle basilari regole del vivere civile, in barba anche al prezioso ruolo sociale ricoperto. I dialoghi incisivi, asciutti, mai pedanti o retorici. La messa in scena matura, appassionata ed essenziale, capace, grazie anche ad un sapiente montaggio alternato e ad una colonna sonora travolgente, solo a tratti leggermente invadente, di coniugare con avvolgente fluidità, impetuoso e commovente coinvolgimento emotivo, in un armonioso e perfetto equilibrio tra immagini e narrazione, impegnative sequenze d’azione (la rapina iniziale al furgone, la sparatoria al capannone della banda) con l’intimità di toccanti momenti familiari (non solo l’intenso confronto tra Vrinks e la moglie in tribunale, ma anche le chiacchierate di Vrinks con la figlia che quando lo rivede, uscito dal carcere, lo saluta e lo abbraccia calorosamente dicendogli “Ce ne hai messo di tempo!”, o la tenera, sottile complicità con la dolce e paziente Manou). A ciò si aggiungano attori dalla facce giuste ed in stato di grazia, capaci di comunicare con uno sguardo mille sensazioni e stati d’animo e il gioco è splendidamente fatto. Sembra facile trovare gli ingredienti giusti e amalgamarli correttamente evitando convenzioni, caricature, enfasi, lungaggini e ovvietà ma il cinema di oggi dimostra che non lo è affatto. Lode a Marchal: con piglio sicuro, robusto mestiere, ritmo serrato e nervoso, trascinante energia, viscerale personalità, rara sobrietà di stile, impetuosa, vibrante ma mai incontrollata o manieristica partecipazione ridà lustro a un genere che sembrava morto. “Non è facile tornare nel mondo dei vivi, lo sai?” dice Vrinks alla figlia: con Olivier Marchal il polar è tornato tra noi dimostrando di avere ancora tanto da offrire. Magnetico, poderoso, tosto, quasi epico. Dedicato alla memoria di Christian Caron, comandante di polizia ucciso in servizio il 31 agosto 1989. 8 nomination ai César (Auteuil, Dussollier, Mylène Demongeot che interpreta la prostituta Manou, montaggio, suono, regia, film e sceneggiatura) ma nessun premio. In compenso quasi 2 milioni di spettatori nei cinema francesi. In cantiere un remake americano per la regia di Martin Campbell.
Voto: 8
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