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Allodole sul filo

Regia di Jiri Menzel vedi scheda film

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La recensione su Allodole sul filo

di Peppe Comune
8 stelle

Siamo alla fine degli anni quaranta, dopo il “Vittorioso Febbraio”, l’evento che sancì la presa del potere del regime sovietico. Ci troviamo a Kladno, in un polo siderurgico situato alla periferia est di Praga. Qui esiste una fonderia dismessa che è diventata un campo di lavoro forzato dove vengono internati quelli che devono essere rieducati al nuovo ordine. Un’immensa discarica a cielo aperto, un ammasso di rottami e macerie che si perdono a vista d’occhio. Vi lavorano persone provenienti da diverse estrazioni sociali, uomini e donne colpevoli di essere non in linea con l'ideologia dominante. Ma nonostante tutto la vita scorre serena, e mentre il caposettore (Rudolf Hrušínský) illustra alle autorità che vengono a visitare il campo come si procede alla rieducazione attraverso il lavoro dei disobbedienti, i prigionieri del campo si fanno beffa della rigida disciplina imposta dal partito. Una particolarità del campo è che gli uomini e le donne sono tenuti lontani. Ma questo non impedisce a Pavel (Václav Neckàr) e Jitka (Jitka Zelenohorská) di far incontrare i loro cuori. Approfittando della volontaria distrazione di una giovane guardia (Jaroslav Satoranský), i due possono coltivare il loro tenero amore e progettare il matrimonio. Ma l’ombra del regime incombe sempre su di loro, punendo ogni atto di disobbedienza alle direttive del partito con il trasferimento verso luoghi ben più duri da sopportare rispetto alla discarica di Kladno.   

 

scena

Allodole sul filo (1969): scena

 

“Allodole sul filo” di Jiri Menzel è una delle opere più significative della “Nova Vlnà” cecoslovacca, quel movimento cinematografico che, nato sulle orme delle “nuove onde” che si diffondevano un po' in tutto il mondo, diede il suo apporto in termini di originalità di approccio al potenziale visivo della settima arte. Liberamente ispirato come “Treni strettamente sorvegliati” a un racconto di Bohumil Hrabal, “Allodole sul filo” conserva la caratteristica fondamentale della poetica del grande scrittore cecoslovacco, quella di immergere in un universo farsesco intriso di sagace ironia la denuncia amara contro i mali prodotti alla sua terra del regime sovietico. Infatti, il film sa raccontare con tono leggero la difficile esistenza di un gruppo di internati in un campo di lavoro forzato, usando l’ironia per far risaltare per contrasto la rigida impalcatura del potere costituito, corrosa dalle fondamenta dalla capacità affatto dispersa di un uomo e una donna di credere nell’amore.

Il film è ambientato nel periodo successivo il “Vittorioso Febbraio”, quando “la classe operaia prese finalmente il potere e diventò la classe dominante dello Stato. Gli avanzi delle classi sconfitte furono messi al lavoro, così poterono espiare l'appartenenza all'ex borghesia attraverso l'onesto lavoro" (questo recita la didascalia di presentazione del film). Ma proprio perché non racconta le vicende allineandosi alla narrazione del partito, “Allodole sul filo” venne bloccato dalla censura di regime durante i giorni caldi della “Primavera di Praga”, per riemergere solo nel 1989, quando venne premiato con l’Orso d’oro a Berlino.

“Allodole sul filo” inizia con una lenta panoramica orizzontale che ci porta dentro il polo siderurgico di Kladno, dove è reclusa un’umanità varia e diversamente disobbediente. Tutti "lavoratori volontari”, dice il caposettore ad un ospite venuto ad ispezionare il sito, “la maggior parte di origini borghesi. Fonderemo anche loro in un nuovo tipo di uomini". Ma nessuno è arrivato con le proprie gambe in quella discarica a cielo aperto, un ammasso di rottami e ferraglia arrugginita che sembra esistere solo per degradare, non solo chi vi è costretto a lavorare, ma l’essenza stessa del lavoro. Sono tutti degli ex lì dentro, ognuno con un passato e un lavoro qualificante, adesso messi in riga dalla rigida disciplina del partito, che tende all’omologazione coatta delle personalità e all’appiattimento indifferenziato dei talenti. Un po' tutti pensano al mondo di fuori, chi facendo riemergere il suo vissuto “glorioso”, chi inventandosi storie più o meno veririere, chi limitandosi ad evocare le fattezze dei migliori ricordi. Sempre per cercare di spingere più lontano il buio che avanza, per estraniare le proprie vite dalle macerie che le assalgono, che ormai popolano ogni spazio, proprio come i regolamenti sclerotici redatti dai burocrati del partito ripetuti in ogni momento. Insomma, Jiri Menzel ci fa toccare con mano la gravità della situazione, portandocela ad osservare in tutti i suoi effetti distorsivi. Ma il tono che permea la narrazione è abbondantemente ironico e dissacratorio, perché a prevalere è la voglia di vivere nonostante tutto, di non disperdere la capacità tutta umana di provare sentimenti sinceri, di rimanere sé stessi anche rischiando di avvicinare la prossimità della fine. Comportandosi come le allodole posate sui fili dell’alta tensione, che continuano ad intonare il loro bel canto ignare del pericolo che ogni volta incombe su di loro. Le brutture del luogo affogano in un mare di mirabolanti stramberie, che si rivelano essere l’unico modo a disposizione degli internati di tenere vivo lo spirito accese le menti. Si demitizza la retorica operaista del lavoro svolto per spontanea volontà, facendo della svogliatezza che accomuna tutti gli internati nel loro lavoro quotidiano il carattere visivo più incisivo possibile per denunciare l’appiattimento verso il basso dei particolari talenti. “Perché non dovremmo essere felici se lavoriamo solo per noi stessi”, si legge da qualche parte nel campo proprio ad inizio film, un cartello che suona beffardo se confrontato con le mura che tengono confinati dal mondo le vite degli “operai” e i soldati che ne controllano ogni passo. E se i gestori dell’ordine costituito non hanno le facce cattive di chi è abituato ad urlare ordini per far valere il dispotismo del potere, è solo perché Jiri Menzel ha inteso rappresentare attraverso la loro "bonaria" mediocrità la faccia di un male che può e sa esprimersi con impercettibile efficacia. Qui è altrove. La decadenza è nelle cose che popolano ogni angolo della messinscena, e Jiri Menzel architetta il tutto facendo della goliardia e della verità dei sentimenti dei fiori colorati che spuntano dalle imposture del potere. I rottami simboleggiano i resti di un ideale andato in frantumi, che nato per propugnare in teoria e nella pratica il dominio dell’uomo sul lavoro che compie, ha finito per schiavizzarlo in un universo lavorativo che neanche conosce. Così come l’amore tra un uomo ed una donna che decidono di sposarsi simboleggia ciò che niente e nessuno dovrebbe tenere separato. Né il filo spinato, né tantomeno la paura che annebbia le coscienze. Un gioiello di film che è sempre bene recuperare      

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