Regia di Kira Muratova vedi scheda film
Unico film vietato durante l’epoca della glasnost gorbacioviana, Sindrome astenica di Kira Muratova è una pietra miliare del cinema sovietico.
Affascinata dall’assurdo e dal brutto (chi ha visto o vedrà questa pellicola comprenderà perfettamente cosa intendo dire), la regista ha costruito una struttura ricca di digressioni bizzarre e di interpretazioni astruse che le permettono di rappresentare (e definire) il caos esteriore e interiore di quegli anni ormai da noi così lontani (anche geograficamente parlando). Lo fa, mostrando semplicemente il decadimento del paesaggio fisico e la confusione delle anime che lo abitano.
Astenendosi da un qualsiasi giudizio politico, la Muratova dipinge dunque un affresco toccante e disarmante che racconta non solo la vita nell’Unione Sovietica di quegli anni di transizione, ma definisce anche un più generalizzato stato d’animo di noia e di disinteresse di fronte alla vita (la sindrome astenica appunto) una concezione che l’uomo ha di sé da sempre all’interno della realtà stessa che sta vivendo e che Puskin (nel suo Evgenlj Onegin) aveva definito chandrà.
Il film stesso sembra essere affetto dalla sindrome del titolo che si presenta anche, come un disturbo alienante che induce stati alternativi di aggressività nervosa e di vuota passività.
Scritto dalla regista stessa, il film è diviso in due segmenti separati. Il primo - di brevissima durata, girato in bianco e con pochissimi dialoghi, si concentra sul cordoglio irrequietamente doloroso di una donna (Olga Antonova) che, inconsolabile per la prematura perdita del marito, assale (con violenza non solo verbale) chiunque incroci sul suo cammino.
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Fin qui tutto bene e senza troppe novità ma poi, improvvisamente, il registro cambia e lo spettatore scopre così – senza alcuna soluzione di continuità - che le immagini in bianco e nero in simil film muto di quel primo tratto, sono di fatto le proiezioni che passano sullo schermo di una sala cinematografica.
Si passa così alla seconda parte (di ben più lunga durata) interamente girata a colori per rimarcare meglio la differenza di registro (e il risultato è particolarmente suggestivo) che si rivela invece essere una disamina grottesca di quella sorta di malessere galoppante di cui sopra.
Siamo ancora nella sala cinematografica della proiezione precedente dove c’è adesso un presentatore che annuncia (fra realtà e finzione) il nome della celeberrima protagonista di quella pellicola (Antonova appunto) che - come viene detto per definirne la grandezza – ha recitato in opere di Sokurov, Klimov e della stessa Muratova.
E’ a questo punt che gli spettatori si alzano e se ne vanno sdegnati lanciando verso il film insulti e frasi offensive tipo “La vita è già così dura e deprimente che al cinema voglio divertirmi” finchè nella sala rimane un solo spettatore che dorme però profondamente sulla sedia (Nikolaj, il professore narcolettico che sarà il fulcro confuso e triste della seconda parte di questa stravagante e a suo modo, tragica pellicola. Questo è il momento in cui viene reso chiarissimo il sintomo del disturbo che colpisce sia il film stesso che la realtà che rappresenta perchè la Muratova riassume così la natura sempre imprevedibile e mutevole del suo cinema fornendo nel contempo anche un entusiasmante metacommento sulle reazioni degli spettatori al suo film.
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