Regia di Aleksandr P. Dovzenko vedi scheda film
E’ soprattutto l’impiego del colore ad impressionare positivamente in questo film. Lo aiuta infatti ad amplificare il pathos e le emozioni che la pellicola suscita ancora oggi e a definire meglio i due piani narrativi del racconto. Per il resto infatti dobbiamo necessariamente sospendere il giudizio per gli interventi censori che ha subìto.
L’ultimo film di Dovženko (morto prematuramente nel 1956) è Mi?urin (1948), una ormai quasi dimenticata, ma stimolante opera che riprende molti dei temi cari all’autore in una atmosfera resa particolarmente vibrante da quattro straordinari movimenti sinfonici (la bellissima partitura musicale è di Dmitrij Šostakovi?, un nome che è già di per sé garanzia di eccelsa qualità anche quando il compositore, come in questo caso, è costretto ad “ossequiare” e rispettare le esigenze dittatoriali e un po’ propagandistiche del partito comunista russo al potere).
Nel film, è soprattutto l’impiego del colore ad impressionare positivamente, e sono in questo senso davvero sorprendenti i risultati che il regista riesce ad ottenere attraverso il semplice utilizzo della variegata tavolozza delle tinte e delle “nuances” a sua disposizione, grazie alle intuizioni espressive che attraverso la scelta ragionata dei toni e dei chiaroscuri, gli consentono di mettere in pratica un lavoro “pittorico” dinamico e creativo davvero inusuale per l’epoca, che “disegna” magnificamente pathos ed emozioni espresse dal racconto, e capace di imprimere alle immagini, in perfetta sintonia con le note musicali che le accompagnano, non solo il giusto ritmo richiesto dalla storia, ma anche il bilanciato contrappunto cromatico indispensabile per definire meglio due differenti piani narrativi che si sovrappongono (sia pure con qualche “frattura” che cercherò di mettere in evidenza dopo). Non va infatti dimenticato che quelli erano anni in cui l’impiego sistematico del colore era ben lontano dall’essersi affermato quale usuale strumento espressivo come accade nella contemporaneità dei giorni nostri: costoso e nei risultati pratici non sempre adeguato e corrispondente alle esigenze “artistiche” del regista committente, veniva quasi esclusivamente impiegato a fini commerciali per rendere più impressionanti ed appetibili i kolossal storici o di avventura, con solo qualche sporadico tentativo di “nobilitazione del mezzo” frutto dell’intelligenza intuitiva di raffinati esegeti che cominciavano a scommettere sulle potenzialità ancora inespresse del colore, e tentavano più o meno timidamente di metterle in pratica per dimostrarne la validità oggettiva.
La cinematografia sovietica è stata un avamposto all’avanguardia in questo campo: Eisenstein che aveva già “osato” sdoganare l’espressività del colore utilizzandola per alcune sequenze inserite nella seconda parte (La congiura dei Boiardi) della trilogia su Ivan il terribile, e che ne prevedeva un uso più massiccio nell’episodio conclusivo purtroppo mai realizzato a causa della sua prematura dipartita, aveva già in un certo senso teorizzato e codificato le possibili “modalità d’uso” nel suo “The film sense” (inserito in Italia nel volume Forma e tecnica del film e lezioni di regia pubblicato da Einaudi nel 1964), scrivendo al riguardo fra le altre cose: Noi stessi decidiamo quali colori e suoni potranno servire meglio per descrivere il dato o l’emozione che cerchiamo…(…) e a noi è affidato l’aspetto creativo di tale utilizzo (…)…la legge qui esposta richiederà allora che ad un definito tono di colore sia data consistenza per mezzo di una struttura figurativa in stretta armonia con il tema e l’idea dell’opera.
Ed è certamente richiamandosi a tali teorizzazioni che Dovženko sentì il bisogno di giustificare il suo lavoro in quella direzione, scrivendo, in occasione della presentazione del film: Due cose devono essere considerate nei colori del mio film: negli episodi di passaggio che hanno una importanza secondaria, il colore viene usato con estremo tatto per non offendere la vista dello spettatore e quindi non deve sembrare mai troppo “sgargiante”; negli episodi culminanti invece, il colore deve diventare uno dei principali componenti dell’opera artistica e il pittore-regista, in quel momento, deve essere capace di trovare le tinte giuste, anche “drammatiche”, necessarie a farlo diventare un prezioso rilevatore “mediato” non soltanto della natura, ma anche dei sentimenti che esprime il racconto.
Per giudicare e valutare adesso in prospettiva il valore dell’opera, credo che si debba allora necessariamente ripartire proprio dal colore, unico “vero” elemento non contaminato da fattori esterni solo marginalmente condivisi e spesso “subiti” dall’autore che, come cercherò di evidenziare poi più avanti, hanno contribuito a modificare anche pesantemente i connotati già consolidati del progetto originale.
In Mi?urin dunque, possiamo affermare allora che è proprio il colore l’elemento determinante e caratterizzante – soprattutto in maniera innovativa – del risultato filmico. Non ricordo infatti di aver visto altre pellicole nelle quali il colore sia stato usato con maggiore (o altrettanta) perizia ed efficacia (ovviamente mi riferisco al periodo in cui il film uscì e fu distribuito, poiché con i progressi tecnici che sono stati fatti, se non si contestualizza il concetto in tale direzione, potrebbe adesso risultare persino poco condivisibile una considerazione di questo tipo). Nel film infatti, i molteplici episodi che lo compongono, per accentuare l’emotività della narrazione, sono efficacemente caratterizzati dal predominare di un colore (o da una tonalità più o meno evidente e accentuata dello stesso) che varia a seconda dei momenti e delle necessità espressive e psicologiche delle vicende rappresentate. Quando poi il fattore cromatico si coniuga con il suono, il risultato, per sinergia di intenti, diventa ancor più interessante e appassionato: l’utilizzo parallelo e in contemporanea di queste due specifiche tecniche risulta perfettamente coordinato, tanto che i due elementi si implementano davvero a vicenda fino a diventare uno straordinario veicolo di emozioni sensoriali molto efficace e sorprendentemente comunicativo.
Posso ricordare, al fine di esemplificare meglio questo concetto, il veloce, toccante passaggio dei numerosi primi piani in sequenza che chiudono l’episodio della festa di Capodanno del 1900, quando in casa dello scienziato si saluta l’avvento del nuovo secolo. Nelle facce si legge una sicurezza intima che sembra diventare una “certezza assoluta” di immobilismo resa ancor più evidente dalle tonalità utilizzate per caratterizzare volti ed ambienti. Sembra quasi di percepire attraverso sguardi e colori, che forse nemmeno l’avvento del nuovo secolo sarà capace di intaccare la sicurezza rassicurante di un ordine che si vorrebbe immutabile. Dovženko però interviene in apparenza per sottolineare ancor di più il concetto che è stato espresso, ma in sostanza per ribaltarne in parte il senso, facendo accompagnare il passaggio dei volti davanti all’obiettivo da un sordo rintocco di campane che assommandosi ai toni cupi delle sfumature che ombreggiano e oscurano i contorni delle cose, rendono un in po’ spauriti e incerti gli sguardi, e questo è sufficiente per instillare un dubbio, suggerire una possibile diversa interpretazione della scena. Un altro esempio può essere quello che ripropone in una specie di flashback mnemonico la morte di Lenin e quello altrettanto empatico del momento della morte improvvisa della moglie (una pagina da antologia in cui si contrappongono gli interni scuri della stanza dove la donna agonizza ai colori festosi della campagna in fiore). Attribuendo toni estremamente solari alle immagini della vita e toni invece quasi notturni e molto più inquietanti a quelli del trapasso, il regista raggiunge proprio l’effetto del contrappunto cromatico a cui avevo accennato prima, capace di definire con esattezza i due differenti piani narrativi, ottenendo anche risultati espressivi di particolare importanza e rilevanza persino sotto il profilo della rappresentazione delle psicologie dei personaggi, che contribuiscono a rendere più chiaro e definito il linguaggio stilistico delle scelte operate non solo figurativamente ma anche narrativamente parlando.
Se il colore e la sua efficacia espressiva è dunque il dato più “certo” e incontrovertibile dell’opera, per tutto il resto invece possiamo solamente confrontarci ed esprimere un giudizio in ogni caso parziale, su ciò che resta dell’idea originale del regista, per la evidente disparità che emerge sovente fra momenti toccanti e ben strutturati e sequenze fortemente discutibili persino un po’ risibili (per non dire imbarazzanti). La palese discontinuità narrativa che ne deriva, è assolutamente insolita in Dovženko (ma a mio avviso è semplicemente l’inevitabile conseguenza del controverso, travagliato iter di una pellicola che il regista è stato costretto a rimaneggiare non solo durante la lavorazione, ma anche quando ormai era già finita e montata per rielaborarla, modificarla e adeguarla alle imposizioni propagandiste di carattere ideologico-opportunistico del regime).
Sceneggiato da Dovženko stesso (insieme a Julia Solnceva) sulla base del suo dramma La vita in fiore, il film doveva essere soprattutto un poema sulla natura e sulla ricerca scientifica che tale natura può modificare, ma le variazioni, i controlli e le censure dei dirigenti del cinema staliniano furono tali e tante da cambiarne profondamente il senso e l’indirizzo. In altre circostanze e contesti, con alla guida del carro artistico una mano meno efficace e sensibile, le alterazioni politiche avrebbero potuto far deragliare il tutto verso la irrecuperabile deriva di un volgare e semplicistico “oggetto” cinematografico di esclusiva propaganda di nessun utilità pratica, ma Dovženko era tutt’altro che uno qualunque, e allora nonostante le interferenze e il suo doversi arrendere alle esigenze del potere, il valore dell’artista di rango, autore di importanti e fondamentali capolavori come Arsenale e La terra, riesce alla fine ad emergere anche questa volta, sia pure un po’ più “a singhiozzo”, ma solo a causa del pesante rimpasto che ha dovuto sopportare (e i segni restano evidenti e soprattutto sufficienti a raccontare il travaglio), tanto che il regista ha riconosciuto solo parzialmente la sua paternità dell’opera, per il disagio evidente di non essersi potuto esprimere fino in fondo seguendo la propria personale ispirazione.
Sono infatti assai frequenti le sequenze importanti “degne” di tale padre (dove è spesso ancora il colore a farla da padrone). Dovženko è straordinario quando illustra i fallimenti e le difficoltà del ricercatore e la sua radiosa giovinezza; addirittura superbo nella già citata sequenza della morte della moglie, uno dei momenti più toccanti e commoventi di tutta la pellicola. E c’è soprattutto la sorprendente sequenza della Rivoluzione d’Ottobre col fiorire di una moltitudine di bandiere rosse che riempiono gli occhi e lo schermo, con una composizione anche cromatica di vertiginosa bellezza, un pezzo di cinema di assoluta rilevanza in cui le armonie dei colori realizzano un capolavoro visivo che sopravanza di molte spanne tutto quello che in tale campo e direzione, era stato prodotto fino a quel momento.
Entrando invece nella struttura narrativa del film, posso sintetizzare dicendo che viene in pratica rappresentata la biografia in immagini della vita e del lavoro - prima e dopo la Rivoluzione d’Ottobre - di Ivan Vladimirovi? Mi?urin (1875 – 1935) importante agrobiologo ucraino che iniziò la sua carriera come vivaista a Koslov per diventare poi il famoso “trasformista della natura” che la Russia ha celebrato come eroe “rivoluzionario” delle proprie scoperte scientifiche.
Dovženko (adattando il discorso a ciò che ha richiesto il partito che gli stava alle spalle) descrive nel film la nascita e lo sviluppo del cosideetto “miciurismo”, concentrando soprattutto l’attenzione sul significato sociale della affermazione dell’uomo che combatte accanitamente la teoria di Mendel.
Per essere più chiari e diretti, si può dire dunque e meglio, che è diventata alla fine una operazione fortemente caldeggiata da Stalin in persona, che si fonda su una controversia pseudoscientifica (ma che è in realtà di natura ideologica) intorno alle teorie biologiche di quel Trofim Lysenko (teorie rivoluzionarie, ispirate ai principi del materialismo dialettico e perciò contrarie al mendelismo borghese) che, continuando le ricerche iniziate da Mi?urin, si stava battendo in quegli anni per imporle come verità acclarate (la storia poi lo sconfesserà, ma non è questo il punto, purtroppo), in nome del materialismo dialettico. Il partito diede la sua approvazione ufficiale a questa corrente di pensiero, e gli avversari di Lysenko – rispettosi della scienza prima che dell’ideologia – furono così emarginati e messi in minoranza, assolutamente osteggiati e derisi. Una rivalutazione di Mi?urin parve allora opportuna per corroborare la validità del nuovo corso, tanto più che l’iniziativa coincideva con la svolta culturale del realismo socialista, ed è così che Mi?urin finisce per diventare colui che controbatte e combatte non tanto la tradizione mendeliana, quanto la tradizione religiosa, e la lotta dell’uomo contro i pregiudizi della natura, si trasforma si trasforma conseguentemente nella lotta del cosiddetto uomo-nuovo contro i pregiudizi della religione.
Come si può ben immaginare, il film è stato al centro di confuse e prolungate polemiche che hanno coinvolto la cultura di sinistra del dopoguerra (e tanto bastò per assicurare in quegli anni una risonanza al film che adesso si definirebbe di carattere mediatico ben oltre i suoi meriti cinematografici). Le ragioni “politiche” della diatriba, strettamente connesse col realismo socialista credo che seppur in gran parte superate, possano risultare chiarissime anche adesso (magari potranno adesso sconcertare un poco perché o tempi e le ideologie si sono fortunatamente un po’ evuluti).
Con assoluto tempismo, il film fu fatto uscire sugli schermi lo stesso anno in cui Lysenko riceveva l’approvazione ufficiale del PCUS, e i suoi avversari venivano emarginati o addirittura arrestati, per farlo diventare così un elemento “indotto” di propaganda che avrebbe dovuto assumere la dimensione di un comizio teso a proporre e imporre la validità di una supposta conquista non solo scientifica del pensiero sovietico.
Della poetica del regista, mantiene comunque – ed è straordinario che ciò sia avvenuto nonostante tutti gli accadimenti ostativi - il caratteristico slancio romantico che lo contraddistingueva, oltre che una accesa fantasia visiva, che qua e là, in mezzo a qualche grigiore ripetitivo e ampolloso della narrazione (la cerimonia nel frutteto per la presentazione delle nuove mele è addirittura grottesca), è comunque capace di produrre sequenze molto interessanti e di acceso lirismo.
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