Regia di Jean-Luc Godard vedi scheda film
Per Hegel a fondamento c'era il Divenire, l'alternarsi continuo di Essere e Nulla, il loro scambio dialettico costante, il loro permutare per dire vita al movimento, alla cinesi. Il Cinema è, immediatamente dopo, il Movimento per eccellenza, quello che blocca e al contempo riproduce la vita nel suo farsi e nel suo amalgamarsi di pensiero e realtà, astratto e concreto. Il Cinema a fondamento, l'Atto per eccellenza, quello che rende l'uomo un piccolo essere creatore, anche se creato, nell'intero universo, finalmente controllabile.
Godard parla spesso e volentieri di libertà, nelle sue enciclopediche e mastodontiche Histoire(s) du cinéma, e lo fa citando, anche se solo una volta, il "Così parlo Zarathustra" di Friedrich Nietszche, e scrivendo, in una frettolosa didascalia, "Eterno ritorno" in francese. E questo già rivela la natura profondamente espressionistica di questo gigantesco lavoro che non è altro che un atto d'amore nei confronti del Sapere e dell'Immaginazione. Godard lancia infatti piccoli indizi, tutti provenienti da un flusso di coscienza che cerca di autoanalizzarsi tramite la messa in pellicola di un collage surreale (e appare anche un mezzo dipinto di Ernst) di immagini spesso sovrapposte e "reinterpretate", ma che sfugge a qualsiasi tipo di categorizzazione, tanto che le tematiche che sembrano indicare i titoli degli otto episodi di cui il film è composto rasentano il pretestuoso, configurandosi come indicazioni magari anche disorientanti di quello che si sta per vedere (anche se lo stesso Godard ha dato - magari ironicamente - spiegazioni al riguardo). Che poi si possa vedere l'esatto contrario, non è un caso, né un errore di distrazione del regista francese: essendo, lo stesso Histoire(s) du cinéma, un film che vuole autoconsiderarsi all'infinito entrando in un labirinto che si sognerebbe anche Hescher, esso rimane, diversamente dagli altri film della storia, "in vita" proprio grazie a questo suo continuo riconsiderarsi, autoinfliggersi correzioni e riavvolgimenti, fino alle più plurime e diversificate conclusioni su quello che è il cinema effettivamente. Histoire(s) du cinéma altro non è se non il flusso di coscienza dello stesso Jean-Luc Godard, identificatosi grazie anche al colloquio con Serge Daney come un fortunato intellettuale venuto a metà del Novecento e a metà della Storia del Cinema. E Godard è anche (fin troppo) consapevole di aver capito, anche se in ritardo e in maniera poco spontanea, la vera potenzialità del cinema, e senza voler davvero giungere a una conclusione univoca (ed evitando d'altro canto la natura prettamente illustrativa come potrà fare poi il sistematico Cousins in The Story of Film almeno quindici anni dopo), rende il suo Histoire(s) du cinéma un continuo incipit di quattro ore e quaranta, una costante riproposizione caotica e squilibrante di punti di partenza, ma mai di punti di arrivo. E' delle potenzialità del cinema che Godard vuole parlare, e lascia il suo film a livello di potenza, di abbozzo non finito da lasciar completare allo spettatore: operazione per nulla scontata (anche se già fatta), considerando la durata poderosa dell'opera e l'immensa mole di materiale che viene citato, smistato, analizzato, letto, interpretato e infine scartato, magari posto come antitesi, oppure poi sfuggente nel grandissimo calderone che ne viene fuori.
Molto è in più, e molto straborda, ma il film di Godard ha un fascino dovuto essenzialmente al grande coraggio del regista di mettere in gioco se stesso e il senso stesso dell'arte cinematografica, addossandosi il compito gravoso di rivedere proprio alla luce della Settima Arte i massimi sistemi: si parla di Storia, di Filosofia, di Arte, di come il Cinema nasca dalle altre Arti ma risulti, paradossalmente, l'"Infanzia dell'Arte", e di come la Storia (e le Storie) che influenzano l'uomo nascano dall'incontro casuale e spesso addirittura catastrofico della materia e delle intenzioni degli esseri umani. La realtà trasformata in guerra durante il Novecento è un esempio lampante di conclusione barbarica e allucinante del processo di cosiddetta civilizzazione, e del cattivo indirizzo che la società aveva preso, e che continua a prendere tutt'ora tramite la televisione e l'appiattimento di quella che era la "bellezza fatale" dell'immagine. Di fronte, infatti, alle riprese digitali con cui Godard contempla Sabine Azèma che parla di bellezza come di incroci di sguardi e di volti (riconducendosi al massimo tema dell'amore tra due individui), con l'aggiunta oltretutto della splendida Ruby's Arms di Tom Waits, cosa potremmo desiderare di più? Godard in poche immagine sa sintetizzare tutto, e riproblematizzare l'intero creato, mostrando anche una grande umanità in queste operazioni probabilmente considerate da molti "intellettualoidi": basti pensare alla geniale riflessione che sta alla base degli interi Histoire(s), il fatto che la Storia sia nella mente degli uomini, e che essa ha un procedere soggettivo filtrato attraverso l'Arte di singoli individui. E il Cinema diventa la Resistenza atta a rispondere alla Storia (o almeno a tentare di farlo), per mordere il serpente dell'Eterno Ritorno e finalmente controllare l'universo, come aveva fatto Rossellini, come è riuscito a fare Hitchcock.
Le Histoire(s) sono la storia dell'uomo per Jean-Luc Godard, o per un uomo in generale nutritosi almeno fino al 1998 di conoscenza, di cultura e soprattutto di passione per la stessa, ed essendo una storia soggettiva madre di tutte le storie soggettive, presenta anche il grande dramma del dubbio umano (di fronte, per esempio, alla veridicità dell'immagine) e dell'incertezza che lo stesso Godard dimostra di avere (o quantomeno sembra presentare, apparendo lui stesso spesso nell'immagine). Così, di fronte a un evidente compiacimento, si presenta davanti allo spettatore la figura di un uomo convinto di se stesso ma sempre in grado di distruggere le proprie fondamenta, per costruirne di nuove che se sono ancora più fragili non ha importanza. Un uomo che sa (e che ci vuole far sapere) come vita e morte siano facce della stessa medaglia, si rincorrano sempre in ordine sparso e si diano senso l'un l'altro, sia in senso teorico sia in senso prettamente esistenziale. Perché il grande dono che le Histoire(s) di Godard fanno è quello di far capire come il pensiero non sia un semplice otium, ma sia, se vogliamo in termini senecani, "la più alta forma di negotium", che trascende le epoche storiche e permette di capire anche come, alla fin fine, l'Arte abbia un fine concreto nella vita dell'uomo, e riesca nonostante tutto a sfrondare le cose accidentali per parlare direttamente a un Essere che, con i tempi che corrono, non sentiamo più nostro.
Se per Heidegger e Pasolini la morte dà un senso di intelligibilità a ciò che era vivo, le Histoire(s) du Cinéma decidono di sfuggire a simile presupposto (pur parlandone esplicitamente), e rimangono vive, almeno finché - non sia mai! - se ne spieghino gli enigmi fino in profondità: rimarrà un grande film (pieno di maestria purtroppo fin troppo cosciente di se stessa) finché conterrà il mistero del Cinema senza assomigliargli realmente.
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