Regia di Woody Allen vedi scheda film
Sembra sempre più stanco, Woody Allen. Stanco e perduto, quasi anacronistico. La storia di Melinda raccontata da due diversi punti di vista, uno più serio (non useremo il termine “drammatico”) e uno più leggero (e non useremo il termine “commedia”) è il pretesto per l’ennesima indagine sui rapporti di coppia e sugli infingimenti che ne derivano. La storia di amori, agnizioni di amori e abbandoni tragicomici commentati da consigli di amici che predicano bene e razzolano male la conosciamo già. Conosciamo il tema del fallimento professionale che affonda il rapporto a due (o viceversa?), il gioco del voler credere nelle virtù taumaturgiche di un nuovo amore, quello che finalmente ti capisce, fino alla fine del prossimo giro di giostra. Quello che non possiamo perdonare e non capiamo come spettatori è la confusione di genere che ne viene fuori: non c’è vera distanza tra dramma e commedia, non c’è nessuno dei personaggi che scavi in sé un modo di vedere la vita, è solo l’esercizio retorico e freddo di chi programma la storia a tavolino a fare la differenza e questo non basta. Woody Allen bara proponendo due donne donne Melinda e Melinda che non sono diverse nell’approccio alla vita, ma solo per le vicende che vivono. Si fa confusione tra le due storie e non c’è un vero stacco tra i due drammi (in senso teatrale), si vedono personaggi che girano intorno a sé stessi e potrebbero far parte di un unico e solo racconto dello stesso tono e senza distinguo: né tragedia, né commedia. Le interpreti femminili sono vittime di una recitazione nervosa e nevrotica che risulta affettata, troppo marcata; si tratta di un gestire con le mani di un fumare convulso dai ritmi retrò: l’imitazione di altri tempi e di altre attrici. Woody Allen, poi, da sempre regista di se stesso, che non ha ancora trovato il proprio attore- feticcio, che riesca a liberare con le sue particolarità la comicità sottile del personaggio per cui scrive, uno sulle cui labbra certe battute non siano semplicemente non-sense.
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