Regia di Paul Schrader vedi scheda film
Cosa c'era dietro il comprarsi una macchina nuova negli anni'70, e tenerla solo per un paio d'anni? Operai sfruttati e sottopagati, morti sul lavoro, sindcati collusi e corrotti, omicidi dei dissenzienti.
Detroit è – o era – famosa per le fabbriche di automobili e per l'inquinamento. Ebbene, questa pellicola offre un doveroso squarcio su una realtà che si conosce quasi solo dal di fuori, solo dalla sua superficie e dai suoi effetti – cioè la produzione di veicoli a quattro ruote. Dietro questa facciata, come ci fanno vedere i fratelli Schrader (alla sceneggiatura a alla regia), si cela un mondo assai variegato e venato di tensioni di vario tipo, che si basa, sostanzialmente, sullo sfruttamento degli operai.
Essi sono sottoposti a turni, se anche non lunghissimi, certamente frenetici, sotto la continua pressione dei sorveglianti, che in continuazione li tormentano perché lavorino velocemente. Per di più il lavoro è monotono e alienante (sempre uguale, catena di montaggio, ecc.), oltre che pericoloso. Coloro che dovrebbero difendere i loro interessi, cioè i sindacati, sono però corrotti e collusi con la direzione. Di contro, gli stipendi sono magri, e un uomo con la famiglia sulle spalle ce la fa a stento ad arrivare a fine mese, e spesso cade preda degli strozzini.
Questa la realtà in cui si dipana la trama del film, la quale si sofferma anche ad analizzare altri aspetti non nobili della natura umana, come la tendenza di quasi tutti a scendere a compromessi con la giustizia e la verità davanti alla prospettiva di un incarico ben remunerato. Pertanto, a difendere sinceramente la dignità degli ultimi sono davvero pochi.
Paul Schrader, come suo solito, ci mette davanti agli occhi una realtà buona e degna – una bella famiglia, i bambini – e una da discarica umana – i festini a base di cocaina e donne facili, entrambe praticate dai protagonisti del film. Sembra quasi che tutti aspirino ad una vita pulita, ma non ne abbiano la forza, e si alternino quindi a razzolare nell'immondezzaio e a fare i bravi mariti. Lo stesso si può dire dell'aspirazione di tutti alla giustizia e alla dignità, e i compromessi al ribasso che finiscono per accettare.
È una pellicola ben recitata da un gruppo affiatato di attori. Harvey Keitel è sempre efficace come uomo volitivo e un po' permaloso. Tra l'altro, qui rifà una scena che evidentemente gli era già riuscita bene: svegliarsi di soprassalto, tormentato dall'inquietudine o da qualche brutto sogno. In Mean Streets di Scorsese, infatti, aveva fatto lo stesso, proprio all'inizio. Richard Pryor, dal canto suo, interpreta un uomo piuttosto ambiguo e oscillante tra onestà e furbizia, altruismo ed egoismo, buone intenzioni e tornaconto personale; comunque, è anni luce lontano dai ruoli da commedia che avrebbe interpretato in seguito. Tutto sommato, il più “tranquillo” dei tre è lo Smokey interpretato da Yaphet Kotto.
La regia di Schrader è ferma e ben piazzata, specie nella parte finale, dove si inserisce nella trama una certa suspense. Tuttavia, non posso fare a meno di notare la presenza di una scena chiave, che mi chiedo perché l'abbia diretta e fatta interpretare in quel modo: quella cioè di Smoeky bloccato nella stanza della verniciatura. Nulla è credibile di quella sequenza: la calma con cui reagisce quando vede che è chiuso dentro, i suoi pacati tentativi di uscire, un modo strano di sfondare la finestra senza chiamare aiuto, e lo stesso taglio finale del montaggio.
Ultimo rilievo che vorrei fare: il modo in cui i sorveglianti controllano e tormentano gli operai richiama da vicino il modus operandi di schiavi e guardiani, che si praticava negli Stati Uniti non moltissmo tempo prima. Sembra proprio che la storia si ripeta con piccole variazioni, o variazioni non essenziali.
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