Regia di Lina Wertmüller vedi scheda film
Un film poco riuscito, di cui bisogna salvare l’ultima mezz’ora. Peccato però per la prima ora e mezza; non è proprio poco.
Ci si dilunga su tante vicende poco significative. La Wertmuller, che ha anche scritto soggetto e sceneggiatura, cerca la strada del pastiche di dialetti italiani: ma non è Gadda, nemmeno un po’. Soprattutto perché, a differenza del gran lombardo, le manca tutta la consapevolezza filosofica, che invece animava il Pasticciaccio: la babele era sintomo del caos del reale, e della sua inconoscibilità. Qui invece tutto questo miscuglio linguistico, dentro il reale postribolo, semplicemente si aggiunge all’inno, intriso di valorizzazione dell’irregolarità e perfino di follia, di liberazione contro la rispettabilità borghese: buon intento, specie se, come qui, si colpisce il conformismo fascista e la sua ipocrisia (i frequentatori del bordello sono professionisti, che tengono ben nascosto tutto ciò). Ma alle buone intenzioni non seguono i fatti: il suo film è sguaiato, volgare. Un grottesco non riuscito, figlio del clima sperimentale post ‘68 (qui è il ’73), nel quale del resto la regista romana ha dato il meglio di sé, notoriamente, in almeno quatto pellicole dal ’72 al 75 (compresa questa). Se penso al grottesco, come chiave per la satira sociale italiana, di un Germi nel decennio prima, siamo su un altro pianeta. Il testo è troppo melodrammatico e teatrale, nell’accezione più sensazionalistica; non ha un vero costrutto, riducendosi più che altro alla provocazione. Per i primi tre quarti, è assai noioso: le urla variegate non destano dal torpore mentale.
Ma un po’ di senso c’è, comunque. L’impennata è attorno all’ora e mezza, come detto: lì qualcosa di significativo finalmente si vede. Sia nella denuncia dell’anarchico, che non vuol vivere da sfruttato e vuol fare qualcosa di importante per migliorare la sorte dell’umanità, pur rischiando così la propria vita (come assassinare un dittatore servo degli sfruttatori, come Mussolini); sia nella storia d’amore, commuovente perché mostra il lato sentimentale della prostituta, oltre che di un contadino sempliciotto ma autentico, ben impersonato da Giannini.
Ma ci sono altri aspetti che sicuramente strappano un giudizio sufficiente. In primis la fotografia di Rotunno e le scenografie di Job, splendide; e poi l’accompagnamento musicale, intenso e popolareggiante, anche di Nino Rota.
Poi la volgarità del fascismo è ben mostrata, specie nel ras interpretato da Eros Pagni: un concentrato di ignoranza, apparenza, arroganza, arrivismo, falsità, violenza, servilismo verso i potenti. Un vero fascista, insomma.
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