Regia di Kim Ki-duk vedi scheda film
La prima visione di questo film mi fece pensare: «Du' palle 'sta "Casa vuota!"». Mai giudizio fu più avventato...
Sono in un certo senso in debito con questo film. Ricordo che la prima volta che lo vidi lo stroncai malamente, convinto di aver assistito a una esposizione di eccessi che non riuscii a digerire. Probabilmente aveva giocato un ruolo fondamentale una certa insofferenza preconcetta verso i temi e gli stilemi del regista sudcoreano, troppo smaccatamente autoriale e autoreferenziale, troppo affabilmente osannato da orde di cinefili "hipsterici" sempre pronti a riempirsi la bocca di «Kim Ki-Duk» e a diffonderne il verbo cinematografico.
Un'esibizione onanistica di eccessi mi parse, quella prima visione: eccesso di lirismo visivo; eccesso di estetizzazione dell'immagine; eccesso di ostentatissimo pathos e sentimentalismo ammorbante. Soprattutto, ricordo, un eccesso di silenzi che mi risultò soporifero, enfatico fino allo sfinimento, addirittura irritante in alcuni punti. I sentimenti dominanti che accompagnarono i titoli di coda furono la noia e la stanchezza.
Stroncato, dunque, per sovrabbondanza di melensaggini e acrobazie simboliche. Non una bocciatura in toto, ma poco ci mancava. Ferro 3 - La casa vuota: piena di forme ma essenzialmente vuota di sostanza. Voto: 5. Al pari di un debito scolastico da recuperare alla prossima visione, trasformandolo in un 6 oppure, inappellabilmente, in un 4.
Una seconda possibilità non si nega a nessuna pellicola, men che meno a un'opera tanto acclamata come questa. Mi chiedevo se un giudizio finale così tranchant non fosse magari compromesso da un pregiudizio di fondo che mi aveva annebbiato la vista durante la prima visione. Furono innanzitutto le mie opinioni, da criticomane incallito e bastiancontrario quasi per partito preso, a parmi eccessive.
Dopo gli "esami di riparazione", quanto di negativo avevo espresso la prima volta, si è improvvisamente ribaltato, assumendo segno positivo. Lo sguardo dolente della protagonista, più che quello disinvolto e malandrino del personaggio maschile che la completa e la contrappunta, precedentemente pensato come stucchevole e fastidioso, si è fatto dolce e commovente. La carica simbolica delle immagini, prima percepita come un qualcosa di fastidiosamente affettato, pomposo e vanitosetto, è diventata un piacere per lo sguardo.
KKD, da autore tronfio e melodrammatico, si è tramutato in autentico tessitore della grammatica delle emozioni, abile come pochi nell'esprimere visivamente la profondità di significato dei silenzi che trascendono le parole. La bellezza delle immagini, la lenta e meditabonda progressione narrativa tra realtà e sogno, la delicatezza con cui sono orchestrate le partiture di gesti ed espressioni, tutto questo mi ha indotto a riformulare completamente il mio giudizio: da 5 a 10... quasi al limite della schizofrenia.
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