Regia di Kim Ki-duk vedi scheda film
Al di là delle affinità con gli altri autori di spicco del cinema estremo-orientale degli ultimi 20 anni (Kitano, Kar-Wai, Ming-Liang e altri), ossia il dialogo ridotto al minimo, l'ermetismo di alcune sequenze, l'estetica nitida ed essenziale delle inquadrature e del montaggio, quello che mi ha colpito maggiormente di questo film, a livello di referenze, è il debito (non so se dichiarato o meno) con due Maestri italiani, tra i più influenti a livello internazionale: Ferreri (nel primo tempo) e Antonioni (nel secondo). Del geniale cineasta milanese, la prima parte del film sembra parafrasare il capolavoro "Dillinger è morto", per come il protagonista gestisce il suo duplice rapporto con la concretezza degli oggetti domestici (siano essi orologi, bilance, panni, spazzolini o pistole: e quest'ultima pare proprio una citazione da Dillinger...) e con la virtualità dell'immagine riprodotta (fotografie, televisione, stereo, fotografie alle fotografie: surrogati del reale che riempiono il vuoto di angoscianti interni borghesi); di Antonioni invece viene ripresa (nella seconda parte) la riflessione sulla dicotomia presenza/assenza, pieno/vuoto, realtà/immaginazione e il film sconfina, con discrezione e ambiguità, nel visionario. In questa seconda parte, lo stile passa dal rigore "oggettivo" del primo tempo all'utilizzo di soggettive, piani-sequenza, immagini traballanti, a sottolineare la presenza (?) del protagonista (o del suo fantasma). Non tutto torna nello script: resta irrisolta la questione dei due presunti omicidi del protagonista e qualche altro piccolo particolare...ma al di là di questo, resta un film difficile da dimenticare. Condividete il raffronto con Ferreri e Antonioni?
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