Regia di Richard Kelly vedi scheda film
Tempo massimo: 28 giorni. Dopo il mondo finirà. La paura e l’amore segnano il passaggio del tempo, nella famigliola felice Darko, la cui mamma, naturalmente, legge Stephen King. Non poteva essere altrimenti, essendo la mamma di un figlio allucinante e allucinato come Donnie.
Inevitabilmente il film Donnie Darko, dell’esordiente regista ventinovenne, Richard Kelly, è diventato un cult fra i più osannati dai giovani di questi ultimi anni. Cos’è successo a Donnie, che dorme sull’asfalto, accanto alla sua bici, non lo sappiamo né noi né Donnie, che però da quel giorno ha delle visioni strane, e soprattutto s’imbatte in un enorme coniglio verde, Frank, una sorta di oracolo che gli preannuncia l’imminente fine del mondo. Frank non è altro che una visione di Donnie. Perciò il film contiene in sé tutte le caratteristiche per diventare un film-metafora della precarietà dell’esistenza umana. Quando il ragazzo torna a casa scopre che la sua camera è stata devastata da un motore di aereo caduto dal cielo. Perciò, con l’aiuto di Frank, cerca di indagare come mai sia scampato alla morte, mentre gli accadono altri strani fenomeni, che minacciano la vita delle persone a lui care.
Anche Donnie Darko (come L’uomo senza sonno, The village, L’esorcista), s’inserisce in quel genere di cinema, il fanta-horror-triller, che oggi si va sempre più riscoprendo, che ha avuto grandi registi-modello, a cominciare da David Lynch e passando da Cronenberg, Polansky, pur non raggiungendo lo stesso tocco registico proprio di questi registi, di grande inventiva e raffinatezza. Semmai, il film di Richard Kelly, come lo sono orami tutti gli altri, ‘servono’ per lanciare nell’Olimpo Hollywoodiano nuovi talenti, come lo è in questo caso per il giovane attore Jake Gyllenhall.
Quest’opera di Richard Kelly, comunque, mostra in modo evidente la sua maestria nell’uso della camera: il primo piano sequenza, girato nella scuola, con tanto di rallenti-stop ed accelerazioni, sa molto di Gus Van Sant, Altman e Von Trier.
Realizzato con un budget di soli 5 milioni di dollari, il film è stato girato 28 giorni, esattamente quelli che mancano alla fine del mondo secondo Donnie.
Peccato, che Kelly non riesca a mantenere sempre a livelli alti la dose d’inquietudine, che attraversa il film. Dopo una prima parte, infatti, ci si perde in una centrale, troppo lenta e verbosa. Tuttavia, è un film che bisogna accettarlo per quello che è: un oggetto cinematografico non identificato, senz’altro di grande fascino, ma da non considerarlo assolutamente tra i titoli impedibili della storia del cinema. Basta non prendere troppo sul serio il coniglio gigante. Semmai, l’aspetto più interessante del film è proprio la metafora dell’uomo-coniglio, una sorta di divinità, essere superiore, presidente (perche no?!), terrorista, che istiga al male. In fondo le nostre società, dall’Oriente all’Occidente, son affollate da questi ‘mostri’. Chi è il coniglio Frank, se non uno che s’aggira fra di noi, che c’invita ad allagare le scuole; che ci costringe a fare uso delle armi, con la scusa dell’auto-difesa; che in nome della pace (quale pace?) dichiara guerra e distruzione, arrogandosi il diritto alla superiorità? E, se nell’America 1987, quella raccontata nel film di Kelly, si sta chiudendo un’epoca, con il duello Bush sr./Dukakis, l’era reaganiana, quella che si prospetta è abitata da esseri spaventosi e potenti come il ‘coniglio’ Frank. Quanti personaggi come questi, oggi, ci fanno pensare che la fine del mondo è imminente? E’ la guerra che parla, la morte che predice, il male che avanza, la violenza come prodotto della paura. L’apocalisse, sulle note di una bellissima canzone dei Joy Division, Love Will Tear Us Apart. L’amore ci separerà, ancora una volta e come sempre. Se non è vangelo tutto cio….
Giancarlo Visitilli
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