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Evil il ribelle

Regia di Mikael Håfström vedi scheda film

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La recensione su Evil il ribelle

di Stefano L
6 stelle

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La cover di “Ondskan” è un po’ ingannevole. L’istinto infatti porterebbe a pensare che Andreas Wilson alias Erik Ponti sia l’antagonista del film diretto da Mikael Håfström e ispirato all’omonimo romanzo dello svedese Jan Guillou; ma una volta avviata, la trama fa comprendere subito la natura del main character: il protagonista è un’anima anticonformista e solitaria, bistrattata dagli schematismi delle autorità, la quale si sfoga con una condotta insolente. Il giovane quindicenne viene ripetutamente picchiato dal patrigno davanti agli occhi omertosi della genitrice biologica e dopo una violenta baruffa scolastica e un conseguente furto viene espulso dal liceo. La madre quindi vende dei mobili per pagare la retta di un prestigioso istituto privato frequentato da aristocratici. Qui verrà a contatto con un mondo turpe, classista, specioso, composto da studenti meschini dediti al nonnismo e da alcuni professori pieni di pregiudizi (uno degli insegnanti è un ex nazista). Fortunatamente scopre di dover spartire la stanza con un ragazzo cordiale e cortese con cui condivide la passione per la letteratura. In seguito alle vessazioni ricevute dagli allievi privilegiati per le più piccole trasgressioni, Erik decide di reagire. Lo stoicismo iniziale sfocerà in un ferale conflitto; l’aspetto accattivante di “Evil” si riscontra in quel ricettacolo mefistofelico ove vengono delineate le radici del “male”, della crudeltà e dell’ipocrisia umana appartenenti alle cerchie elitarie. Il quadro è freddo, e il rigido ordine gerarchico del collegio mostra una persistente brutalità; una rappresentazione avernale scandita da un impeto potente e frastornante, puntellato da una certa ridondanza di situazioni disturbanti. Ed è questa l’arma a doppio taglio che affiora dalla prospettiva inelastica adottata dal regista scandinavo: il meccanismo propenso al parossismo, sebbene si riveli efficace nel paventare quell’atmosfera draconiana che trapelava dalle pagine del libro di Guillou, si trasforma presto in una sorta di esercizio iperbolico e inflessibile, adatto sicuramente al registro congiunto alle asperità illustrate, e tuttavia incapace di celare un impianto piuttosto uniforme, praticamente privo di nuance introspettive distanti da risaputi convenzionalismi di scrittura. Detto in parole povere, questo prodotto mantiene le premesse malgrado non dia un lungo respiro allo spettatore. Il ragguaglio delle forti tesi trattate, legate all’esposizione virulenta di una comunità irreggimentata nelle usanze farisee e bigotte degli anni cinquanta (le quali legittimavano atteggiamenti punitivi arbitrari di un supposto “spirito di squadra”) nonché ad un sistema corrotto e tangibilmente ingiusto, alla fine non delude le aspettative; peccato che la mèsse marmorea e, forse, eccessivamente austera nell'esegesi dei contenuti, lasci pure abbastanza esausti.

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