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The Connection

Regia di Shirley Clarke vedi scheda film

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La recensione su The Connection

di (spopola) 1726792
8 stelle

Nemmeno il teatro di Jack Gelber  può essere dissociato dal Living Theatre, la formazione che ha prodotto, e ancor prima stimolato e reso possibili (rappresentabili), le sue due più interessanti prove di scrittura scenica, The Connection e The Apple, maturi frutti di un’avanguardia fortemente estremizzata. I due spettacoli che da tali testi derivano, sono infatti un tipico esempio di lavoro di gruppo, realizzato proprio attraverso l’apporto collettivo delle differenti professionalità messe in campo (l’autore, il regista, lo scenografo e gli attori) tutte omogeneamente orientate verso un risultato comune, che diventa così l’espressione esplicativa di pensieri e convinzioni condivise.
Fortunatamente, per lo meno per The Connection, ce ne rimane una sostanziale traccia grazie alla trasposizione cinematografica che del lavoro teatrale ha fatto, con interessanti intuizioni anche stilistiche, la talentosa regista Shirley Clarke.
Il film si sostanzia nella registrazione dello spettacolo omonimo realizzato dal Living Theatre, e ne diventa di conseguenza la complementare versione cinematografica, realizzata ingegnosamente con immagini  quasi  “ricamate” sulle note musicali che fanno da tappeto sonoro alla pellicola, come se si trattasse di una  “improvvisata sessione di Jazz”. In un cero senso, è proprio l’adozione da parte della regista  dello stesso tipo di linguaggio intenso e vigoroso utilizzato dal gruppo americano ma rivisitato secondo le esigenze della settima arte, che rende straordinariamente affascinante l’operazione. La Clarke filma infatti le scene con uno stile di ripresa libero, estremamente espressivo fra pause e accelerazioni, che a volte riesce persino a risolvere magistralmente alcune sequenze cardine, nelle cadenze proprie del balletto, così che la pellicola lentamente prende forma fino a diventare a sua volta davvero l’esemplificazione visiva di uno spettacolo nello spettacolo con musicisti in scena, e soprattutto la capacità di cogliere la disponibilità  a farsi riprendere (per denaro) così come avveniva sulle assi del palcoscenico ad opera di un regista improvvisato, di un gruppo di disperati in astinenza (gli attori-personaggi), fissati nel momento topico della spasmodica attesa dell’arrivo del corriere della droga.
La  regista alterna così lunghe inquadrature fisse a complessi piani-sequenza che sfruttano al meglio le semplicissime scenografie di Richard Sylbert:  nude pareti illuminate da una lampadina centrale all’interno delle quali i personaggi si trovano contemporaneamente al riparo dal mondo esterno, ma al tempo stesso, prigionieri delle loro ossessioni.
Gli attori, senza un copione preciso, recitano davvero come se si sentissero scrutati (persino vivisezionati)  dalla macchina da presa, e sulla colonna sonora, a sua volta una “libera” esecuzione musicale di eccezionale  introspezione emotiva,  si odono frequentemente le direttive, i comandi e le sollecitazioni del regista,  quasi che si stesse davvero assistendo a un film nel film nel momento della sua realizzazione. E’ un meccanismo molto strutturato, assolutamente premeditato nella sua organizzazione complessiva, ma “creativamente funzionale”, che procede fluidamente senza pause o intoppi nel produrre “illusione”, ingannando  volutamente lo spettatore che, per quanto consapevole, diventa suo malgrado direttamente partecipe alla costruzione fittizia nel suo farsi  “storia”, proprio come era nelle intenzioni dell’autore della piece, che sono così pienamente rispettate.  L’impressione di verità nell’improvvisazione, è accentuata poi dal fatto che la Clarke ha inserito intenzionalmente una ininterrotta serie di “difetti” fotografici come sfocature, tremolii, sovrimpressioni, ecc. che ne impreziosiscono l’esito proprio per questo suo  ricercato, e anche necessario, “sporcamento” delle immagini. Per assurdo, si potrebbe asserire che il film, nella sua stralunata (im)perfezione,  finisce per apparire più spontaneo e “realistico” di quelli girati con le tecniche dirette del cinema-verità.
Ma per comprendere meglio il positivo risultato ottenuto dalla regista (e anche le difficoltà tecniche e pratiche che ha dovuto affrontare) si deve necessariamente ripartire dal testo e dal gruppo che lo ha messo in scena.
Il Living Theatre si è identificato fin dall’origine in uno specifico manifesto programmatico, che era anche una vera e propria dichiarazione di intenti. Forse è stata proprio questa condizione privilegiata di obiettivi da raggiungere già perfettamente inquadrati e definiti, che ne ha fatto un episodio probabilmente unico e irripetibile nella storia del teatro non solo americano della seconda metà del secolo scorso. Un capitolo intenso e stimolante, carico di originalità e chiaramente collegato a tendenze culturali di minoranza tipiche dei fermenti che si erano sviluppati nel secondo dopoguerra di quella nazione: anarchismo individuale piuttosto che protesta organizzata, pacifismo e non violenza, secondo il precetto di Gandhi, interesse appassionato per la cultura asiatica, dal buddismo Zen a “I King”,  il tutto però  vivificato da  una disponibilità assoluta a pagare di persona proprio quella impossibilità congenita di approdare davvero a una adeguata  chiarezza ideologica, e sorretto dal consapevole timore di non possedere forse una forza sufficiente per esercitare una pressione reale sulle strutture capace veramente di modificarle, o per lo meno di metterle in discussione.
Il nostro impegno, scriveva Julian Beck, anima pulsante del gruppo insieme a Judith Malina, è affrontare il tema della vita e della morte, che ai nostri giorni significa soprattutto l’alternativa tragica fra la pace e la guerra (non dimentichiamoci che quelli erano gli anni “caldi” della guerra del Vietnam). La grande domanda è: esiste una causa per la quale valga la pena di combattere? Esistono governi e principi che valgono più della morte di un solo uomo?
La risposta di Beck esplicitata attraverso il suo lavoro e le sue scelte di vita, è stata ovviamente e da subito, un secco no, come ha chiaramente  evidenziato l’impegno anche politico del gruppo da lui diretto con la moglie, che cominciando faticosamente la sua attività in una soffitta, ha dato origine ad una formazione teatrale fra le più stimolanti, provocatorie e propositive di ogni tempo, qualcosa che rimarrà per sempre nella storia dell’evoluzione artistica della rappresentazione scenica,  per la sua continua e costante testimonianza in favore della vita, in un alternarsi e mischiarsi di idee per il palcoscenico e di testimonianze vissute direttamente per le strade a stretto contatto con la gente.
E’ interessante notare come i due tentativi scenici di Gelber – cui resta il merito di avere provocato l’ondata più vasta di interesse, di scandalo, di ammirazione e di disappunto dalla fine della guerra  in terra d’America – esprimano una ricerca in due direzioni assolutamente diverse. The Connection, che è poi il titolo che ci interessa più direttamente perché è  proprio di quest’opera che si sta parlando, è infatti un’azione drammatica in due tempi (collegati da qualcosa che accade durante l’intervallo) che rappresenta il frammento di vita di un gruppo di drogati in attesa che il fornitore (chiamato in gergo appunto connection) venga a portare la merce di cui hanno un disperato bisogno.
Ecco un esempio – è stato detto all’epoca – del modo in cui il naturalismo, attraverso un sforzo estremo di approfondimento, può penetrare molto al di là di ogni apparenza del reale. Ed è  un modello unico - si può aggiungere - di naturalismo per eccesso magnificamente utilizzato come mezzo e strumento per  liberarsi dai limiti e dalle pastoie del realismo commerciale. Ogni dettaglio, sulla scena, nel testo, nei gesti, nelle intenzioni, nella regia, tende infatti ossessivamente non a ripetere, ma a produrre ogni volta la rappresentazione non codificata di due vere ore di vita fatte di sofferenza e di attesa,  di “quel” gruppo di drogati che ha preso a riferimento. Il miracolo che Gelber cerca di realizzare, è proprio quello di stabilire un contatto effettivo e concreto fra due situazioni realisticamente veritiere, i drogati della scena da una parte  e il pubblico in sala dall’altro. Perché qui il pubblico deve assolutamente essere “il pubblico”, o meglio, “interpretare” la parte del pubblico, ed è in questo senso che la sua condizione, la sua caratteristica, il suo limite e la sua funzione, sono elementi che vengono continuamente ribaditi e segnati come indispensabili. Anche i drogati devono esprimere in modo intenso e diretto la loro più sofferta e incerta condizione, in una speciale “situazione di sospensione aperta”, che li trova ad operare privati quasi completamente di un testo vero e proprio, di battute, di accadimenti già definiti,  immersi insomma dentro uno spettacolo che indica solo ciò che vuole esprimere, svincolandone però l’andamento dagli ingombranti lacci delle azioni predefinite, e  dove l’attenzione di chi osserva deve necessariamente  fissarsi sui personaggi per quello che sono, piuttosto che per quello che fanno. La scena, a evitare ogni possibile equivoco di realismo tradizionale, è allora il teatro stesso che diventa anche il set cinematografico: i drogati sono in teatro col pubblico, parlano al pubblico,  lo vedono e sono visti, interagiscono per lui e con lui. Nella fede intensa dell’autore, proprio per come è sviluppato il testo, deve essere stato immaginato come necessario e indispensabile, un punto di arrivo “speciale”, raggiunto il quale, in uno sforzo congiunto che vede coinvolti attori  e pubblico, ogni residuo di finzione finalmente cade per dare luogo alla rivelazione di uno stato di assoluta verità (il miracolo a cui si accennava sopra che con questo testo sembrava realizzarsi pienamente praticamente ogni sera).
Era però soprattutto la forma ad essere modificata, piuttosto che la modalità di rappresentazione che si rifaceva fortemente a fonti già sperimentate.
Come spesso accadeva  nel teatro di Ibsen, anche qui infatti  tutto era già successo prima che lo spettatore potesse avere la possibilità di entrare in un effettivo contatto con i personaggi (ma essi, contrariamente alla solita e collaudata prassi,  non emergeranno poi gradualmente dall’anonimato per illustrare il puzzle delle loro personali tragedie esistenziali, per raccontarsi, ed “esporsi”. Resteranno invece isolati e anonimi, introversi e unici, e ognuno di loro si troverà così a dover comunicare col pubblico per conto suo e per quel che  è e prova in quel momento, senza riferimento – come si è già visto - a una trama unitaria, cosi che l’unità e la coerenza dell’azione, si può formare solo nella coscienza e nell’attenzione dello spettatore che non ha più un ruolo meramente passivo, ma diventa invece parte integrante della rappresentazione stessa).
Come in Pirandello invece, c’è un diretto rapporto quasi di causa/effetto fra i personaggi  e l’autore, che coinvolge  lo stesso spettatore in sala, e soprattutto un interferire costante dell’autore all’interno di tali rapporti, un lavoro sottile che si definisce – ed è molto importante -  proprio nella frequente tendenza degli attori ad uscire dalla scena e passare fra il pubblico, che è costretto così ad osservare anche a distanza ravvicinata e con estrema lucidità e una maniacale attenzione ai dettagli, i personaggi stessi concentrandosi però soprattutto sul comportamento e i gesti, che rimangono davvero l’unica traccia disponibile per esplorare la loro condizione interiore e che proprio grazie a questo insolito processo ricognitivo, determinano un risultato di sorprendente coinvolgimento, dovuto soprattutto a una atavica, sperimentata intuizione, che è poi quella di aver individuato un punto forte di attrazione anche emotiva che costringe alla massima concentrazione.
Successivamente, il Living si cimenterà nuovamente con Gelber realizzando un altro memorabile spettacolo, The Apple, andato in scena il 28 novembre del 1961 con la regia di Judith Malina e le scenografie e i costumi di Julian Beck. Gli interpreti erano: James Earl Jones, Cynthia Robinson e Marion Jim nei tre ruoli principali, coadiuvati  per quelli minori,  con distribuzioni che variavano sera per sera, dallo stesso Julian Beck, John Coe, Henry Proach e Fred Miller.
Sarebbe davvero straordinario se potessimo avere una prova documentale anche di questa esperienza, che si muove, come ho già accennato, in direzione completamente divergente rispetto al precedente lavoro e che ci permetterebbe un confronto proprio sui contrasti strutturali esistente fra i due testi e le due rappresentazioni (ma purtroppo così non è e dobbiamo allora accontentarci di ciò che ricordiamo o che ci è stato tramandato dai giornali). Questa volta – parlo ovviamente di The Apple - il testo è deliberatamente disinteressato a ogni forma di ritmo (così fondamentale invece in The Connection) oltre che di simmetrie, e il crollo progressivo della struttura anche narrativa, la sgradevole alterazione di tutti i rapporti e dei toni, è un proposito perseguito con chirurgica precisione utilizzando un particolare straniamento anche visivo (costumi e trucco) proprio per  impedire che si instauri qualsiasi forma di abitudine o di affezione a ciò che si svolge sulla scena in un lavoro che è stato  giustamente definito una non play, e che tuttavia riesce (e non è forse merito assoluto anche della messa in scena?) a trattenere il pubblico col fiato sospeso per due ore senza un momento di rottura: di nuovo i personaggi entrano ed escono dalla scena, si alzano o vanno a mettersi fra il pubblico, e negli intervalli l’azione continua nel ridotto, ma niente di tutto ciò che viene prodotto è analogo o similare alla precedente esperienza. In pratica dunque Gelber (e con lui il Living) lancia verso il pubblico un materiale ancor più provocatoriamente informe, che soltanto lui, lo spettatore,  potrà provare a riorganizzare secondo le sue capacità di ricezione emotiva e di comprensione intellettuale senza però aver ricevuto dall’autore alcun supporto concreto che lo aiuti nel necessario processo ricostruttivo.
Seppure la Clarke non si è trovata a dover fare i conti con questa ulteriore estremizzazione, anche relativamente a  ciò che (non) succede in The Connenction, ha certamente dovuto affrontare un massacrante impegno organizzativo delle cose per rendere accettabile l’approccio anche cinematograficamente parlando, e va tutto a suo merito il risultato complessivo positivo e allettante dove  la forza della rappresentazione fa emergere soprattutto un senso di profonda e dolorosa disperazione oltre che di disillusione, nei confronti della società e della vita stessa in un contesto in cui, come si è visto, gran parte dei dialoghi sono improvvisati e i caratteri tratteggiati liberamente.
Per lungo tempo rimasta inedita in Italia, la pellicola è poi stata resa disponibile alla visione (fortunatamente in versione originale, visto che un doppiaggio dell’opera avrebbe davvero procurato irreparabili danni), grazie a RaiSat.
 
La carriera del Living, cominciò nel 1951 grazie all’aiuto e alla collaborazione di Jean Cocteau, John Cage, Paul Goodman e Eric Bentley. Le prime rappresentazioni videro il gruppo impegnato su testi di Gertrude Stein, Picasso (Desire, o meglio, per come lo conosciamo noi qui in Italia, Il desiderio intrappolato per la coda), di William Carlos Williams (Molti amori), di D. H Auden, (L’età dell’ansia), di Jarry, di Paul Goodman (Faustina, La cava di Machpelah),  di Kenneth Rexroth (Oltre le montagne), e di Pirandello (Questa sera si recita a soggetto). Già in quello stesso anno  Beck e la Malina si fecero però anche arrestare (e furono ancora imprigionati per varie cause e motivi, molte altre volte in seguito) per il rifiuto di obbedienza alla polizia durante la prova generale della rappresentazione di un attacco atomico, il che dimostra come da subito, operassero davvero anche “artisticamente” parlando, su più fronti.
Attraverso anni di intenso e appassionato impegno, prima di raggiungere la notorietà internazionale, quell’affiatato gruppo di attori, autori, registi, scenografi, chiuso  come in un fortino nella  casa con i vetri colorati della Sesta Avenue, ha lavorato senza sosta e senza scoraggiamenti, nonostante le condizioni generali avverse, producendo spettacoli e firmando manifesti, spesso facendo anche molta fame.
Prima di Gelber, professionalmente parlando, era stato il Theatre of Change  presentato nel 1960, a fornire loro il primo importante riconoscimento. Il testo si componeva di due parti recitate alternativamente, The Marrying Maiden di Jackson Mac Low con musiche di John Cage, e Women on Trachis (un testo di Sofocle  riscritto da Ezra Pound).  Tanto per essere da subito esplicitamente chiari, nella presentazione del programma di sala si trovava scritto: Vogliamo un teatro che spaventi e diverta, che sia colmo di dolore e di piacere, come lo è la vita. Un teatro che non sia l’imitazione della vita, ma la vita stessa.
L’attenzione de Living Theatre in quel periodo era dunque rivolta soprattutto verso ogni  possibilità di rottura con l’arte formale, tesa nello sforzo di coniugare la finzione con la realtà, di consentire attraverso una forma aperta di spettacolo, l’ingresso sulla scena delle infinite e imprevedibili occasioni della vita. Gli stimoli e le suggestioni che ispiravano il gruppo erano di diversa natura, e soprattutto fortemente diversificate fra loro, poiché  provenivano da moltissime zone anche contrapposte della cultura della loro contemporaneità, da Brecht a Joyce, da Pirandello a Cummings, da Adamov a Piscator, da Ezra Pound a Dylan Thomas, dal Libro dei Mutamenti al Koan del Buddismo Zen, da Stein a Genet, da Artaud a Cocteau, da Elliot a Strindberg. Si legge infatti ancora nella presentazione di The Marrying Maiden (e questo ci fa capire meglio come era ampio il ventaglio delle suggestioni): L’autore ha usato come vocabolario di base per il testo, parole o gruppi di parole dal “Libro dei Mutamenti” (I King). Inoltre l’autore ha diviso i discorsi, le scene e i personaggi in cinque gradazioni di tono, dal più forte al più tenue, e in cinque gradazioni di ritmo, dal più rapido al più lento. Le connessioni sono state stabilite secondo una tecnica di probabilità statistiche. Il copione è diviso in parti numerate. La successione è stabilita, rappresentazione per rappresentazione, servendosi di una coppia di dadi. Anche le sequenze musicali e le relazioni delle sequenze col testo sono stabilite col gioco dei dadi, mente la Malina che curò la prima rappresentazione di In the Jungle of the Cities, più o meno nello stesso periodo, scriveva: Brecht riassume bene, con il suo tipo di teatro epico, ciò che noi intendiamo per spettacolo, una combinazione di strumenti tradizionali e di teatro di avanguardia insieme, come in una dichiarazione significativa e controversa. Non è una forma semplice di espressione e noi siamo continuamente in cerca di un nuovo modo per congegnare la nuova immagine che da qui vogliamo far emergere.
Era dunque  necessaria una limpida tensione morale e un’intensa volontà di ricerca, oltre che la freschezza immaginativa e la spregiudicata disponibilità nell’accostare e utilizzare ogni esperienza nuova per esplorare tanti differenti territori. Ma  ci voleva anche e soprattutto una calma maturità critica,  la non comune abilità di evitare il già fatto e la capacità di organizzare l’immenso materiale disponibile fra sensibilità poetica e provocazione non violenta senza fratture o disomogeneità. Noi siamo anarchici. Anarchici e pacifisti (e sono parole proprio del manifesto programmatico del Living). Noi crediamo che il tipo di organizzazione nel quale viviamo, prepari inevitabilmente la guerra e che qualunque forma di ribellione e di testimonianza, nella forma della resistenza passiva e della disobbedienza civile, serva a ostacolare i piani della distruzione, serva a sostenere la causa della vita contro la causa della morte. Noi crediamo nella resistenza alla legge e nella non violenza. Per questo affrontiamo il carcere e la polizia. E, traducendo tutto ciò in termini d’arte, tentiamo di realizzare quello che Brecht e Piscator ci hanno insegnato, e di fare dunque un teatro politico, un tipo di spettacolo che provochi la gente e la costringa  a riconsiderare le ragioni morali di fondo della loro esistenza.
Nella loro protesta, c’è stato, dichiarato, il tentativo sano e pulito di andare incontro alla vita, di ritrovare semplicità nel contatto diretto  con le cose, disturbando la struttura sterilizzata e completamente chiusa della società dei consumi, dei supermarkets e della uniformità totale anche di pensiero, con quello straordinario modo di fare un “teatro contro”, fortemente problematico e attivo, tutt’altro che sterilizzato.
E in teatro, affinché  si verifichi il miracolo della rivelazione istantanea, in cui mostravano di credere fermamente, bisognerebbe forse – come scrisse Peter Brook commentando l’edizione inglese proprio di questa The Connection – che tutti fossero santi, tutti artisti, pubblico compreso. Una condizione utopistica apprezzabile ma non fruttuosa, così come poi non è stato propriamente positivo il risultato finale e l’efficacia dell’opposizione anarchica della loro stimolante opera, e non solo nella chiusa tradizione culturale e politica americana tutta ripiegata su se stessa.
Fra i successivi traguardi importanti raggiunti oltre i testi di Gelber, si devono ricordare quelli di The Brig di Kenneth H. Brown, Les Bonnes di Genet, L’eredità di Caino, Paradise now,  e soprattutto della straordinaria Antigone nella rilettura brechtiana della storia, contrapposizione furente alla guerra del Vietnam che rimarrà a lungo l’elemento principale e di qualificante  “riconoscibilità” del gruppo.
Si può  dunque concludere, utilizzando  le parole con le quali Franco Quadri chiude a sua volta l’introduzione  a La vita del teatro (l’artista e la lotta del popolo) dello stesso Beck: “Alla fine vedo che tutto diventa circolare, sferico, globale” , esattamente come l’Uno a cui per Beck tutto tende. O come la perfezione letteraria della realtà in un testo di Borges, un altro adoratore della Kabbalah. Cerchi concentrici o cerchi eccentrici? (…) D’altra parte girando su se stesso, in se stesso tutto ritorna e si spiega. “Fa parte di un processo che non era destinato a finire:  il principio della rivoluzione permanente”. Il lavoro teatrale che cos’era sennò? Solo una vocazione per arrivare fin qua, sulla strada dove poi sono giunti. “Tutto quanto ho fatto in teatro è un tentativo di realizzare il desiderio di liberazione dalla prigione-gabbia della strega” dice Beck, e credo che alluda alle tante prigioni-gabbia della sua vita.  La prigione di The Brig. La prigione di Belo Horizonte. La prigione della sua classe. La prigione di Les Bonnes. La prigione del gioco sadomasochistico. La prigione dell’arte. La prigione dei suoi occhi ebrei. La prigione dell’immagine (…) L’incontro con il teatro stesso può essere considerato una prigione, o meglio, ha  in se il fascino di una prigione, ma fortunatamente di una di quelle da cui si può uscire.
 
Si era appena trasferito da Chicago a New York, a seguito del suo impegno lavorativo negli uffici delle Nazioni Unite Jack Gelber quando scrisse The Connection. Aveva 27 anni (la stessa età di  Brecht quando pubblicò The Jungle of the Cities) e dichiarava spudoratamente: Non ho mai avuto alcun interesse nel teatro, non ero mai andato a teatro prima, e del resto mi importava di ben poche cose. Avevo un piccolo impiego poco impegnativo alle Nazioni Unite: riproduzione dei comunicati al ciclostile. E’ stato dunque l’incontro con il Living ad aprirmi a nuovi orizzonti, che mi ha fatto cioè interessare ai problemi sociali della contemporaneità e al problema della vita e della morte. A interrogarmi insomma sul fatto che non si può parlare di vita e di morte se non attraverso la metafora della pace e della guerra. La domanda è dunque: c’è una ragione, una sola buona ragione per combattere e per morire? Esiste un governo, un solo governo la cui volontà possa contare di più della vita di un essere umano? La risposta (evidentemente inascoltata, visto come sono andate e stanno andando le cose) è no (si noti l’assonanza assoluta dei concetti finali con ciò che era anche espresso nei manifesti programmatici del Living).
27 anni e nessuna precedente esperienza teatrale, dunque. E’ così che nacque The Connection. Quando qualcuno fece leggere il testo a Judith Malina e Julian Beck, la gente del Living pensò subito che era la cosa giusta. Non l’imitazione della vita (come si è visto) ma un frammento di vita. Dopo due mesi di impegno, di lavoro e di fatica, con pochi soldi e tantissimo entusiasmo, la piece fu pronta per la rappresentazione e ne venne fuori uno spettacolo di un realismo esasperato, portato al limite della paura e del fastidio: quindici persone svenute fra il pubblico nel corso delle prime repliche. I quotidiani mandarono i “vice” e le prime recensioni furono disastrose. Un bruttissimo segnale in un paese in cui di fatto sono proprio i critici a decidere il destino di una commedia. Ma il Living aveva già il suo affezionatissimo pubblico formato da giovani, artisti, gente del Greenwich Villane, che costituiva una platea comunque non facilmente scoraggiabile e che continuava a seguirlo e sorreggerlo. Fu così che alcune riviste, di quelle che facevano “tendenza” come la Sunday Review e il New Republic, pensarono di dedicare più spazio e più attenzione del consueto a questo “insolito” spettacolo, tanto che in poche settimane  l’interesse divenne grandissimo e si cominciò a parlare di successo: Lo spettacolo più discusso, polemico e importante dalla fine della guerra – scrisse Kenneth Tynan  - non tutti sono d’accordo, ma tutti sono andati a vederlo.  
Cominciò da qui l’avventura internazionale del Living, che con i fondi racimolati grazie al crescente successo di pubblico, riuscì ad esportare lo spettacolo a Parigi, a Londra e anche a  Milano, ospite del Piccolo Teatro delle indimenticabili stagioni di Grassi/Strehler.
Se Gelber abbia davvero subìto, nell’inventare quell’improvvisazione dai forti tratti realistici l’influenza di Pirandello, dei Sei personaggi  e di Stasera si recita a soggetto, è una domanda che gli è stata posta molto spesso. A un cronista dell’Esquire, lo scrittore, piuttosto seccato per tale insistenza, rispose stizzosamente: Ho subito l’influenza di Pirandello quanto quella di mia madre, del quartiere in cui sono nato, dei compagni di scuola, del servizio militare. Quando sono in un teatro, io voglio che mi succeda qualcosa, deve prodursi un’influenza e una modificazione reciproca, del pubblico sulla scena, della scena sul pubblico. Questo rapporto antico ed elementare è stato gelato dal cinema, che ha spezzato i riflessi, bruciato l’incanto, rovinato il gusto. Un autore, un regista, deve lavorare a ripristinare l’attenzione e la predisposizione del pubblico al vecchio grande gioco del teatro. Chi sono i grandi autori?Non ne vedo poi molti in giro. Arthur Miller mi piace. Mi piace l’uomo, voglio dire, una figura così nobile, pulita, legata alla verità. Ma se dovessi dire di provare emozione per il suo lavoro… direi una bugia. Tennessee Williams: The Glass Menagerie mi pareva molto bello, importante, ma è tutto. Dicono che è stato il poeta del teatro, ma io non riesco a comprendere esattamente di che cosa stiano parlando. A Broadway poi non si deve neppure pensare. Un autore è un persuasore, il suo lavoro di pressione sull’attenzione e la coscienza del pubblico ha del magico. Quale magia volete che sia possibile creare  quando uno spettacolo costa centomila dollari e i finanziatori, molto ragionevolmente, vogliono indietro la somma investita, e con gli interessi? Il mio  invece non è un teatro fatto per piacere, per incontrare con facilità il gusto di un pubblico immerso in ben diverse attitudini. Intendo per questo affrontare ancora il tema della morte, voglio parlare di un mistero il cui nome non viene neppure detto, nel paese dell’ottimismo e delle pubbliche relazioni. E voglio farlo nell’unico modo possibile, in un modo urtante, che coinvolge, che spezza le abitudini e i riflessi condizionati, con una forza aperta e provocatoria,  indifferente a tutti i ritmi e i riferimenti tradizionali. Può essere un gran rischio, con momenti difficili, ma credo che sia la strada giusta. Del resto, la sola che mi interessi.
 

Su Shirley Clarke

Shirley Clarke, classe 1925, aveva gia alle spalle un glorioso passato da ballerina classica e all’attivo un documentario proprio sulla danza realizzato nel 1953, quando aderì agli inizi degli anni ’60  al manifesto teorico del New American Cinema, realizzando in contemporanea, a conferma della sua coerenza anche stilistica con quel movimento, proprio The Connection, che rimane una delle sue opere di punta di un troppo parco percorso artistico che la vedrà in seguito girare The Cool World (1963) sul ghetto di Harem e sui presupposti che inevitabilmente avrebbero portato alla rivolta. Un documento per molti versi agghiacciante anche se afflitto in parte da una eccessiva spettacolarizzazione degli eventi, ma indubbiamente sorretto da una profonda ispirazione civile.
Ma ancora meglio riuscirà ad esprimere il suo talento, con il successivo Portrait of Jason (1968) davvero un bellissimo saggio di “cinema verità”  attraverso il quale ci viene mostrato il ritratto di un omosessuale, costruito frammentariamente, riprendendolo nei vari momenti di una  giornata qualunque. Dalla pellicola, emerge così una immagine lucida e lirica di una esperienza  di vita che prende forma proprio dagli aspetti più quotidiani e consueti del protagonista, il quale diviene così, suo malgrado, quasi l’immagine simbolica dell’alienazione e della solitudine dell’uomo contemporaneo.
Cinema sincero e impegnato, quello della Clarke, è anche fra i più corrispondenti e riusciti risultati di ciò che è uscito dalla fucina  troppo presto spenta, del gruppo di Jonas Mekas.

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