Regia di Daniele Gaglianone vedi scheda film
Una boccata d’ossigeno, staremmo per affermare: “un neo nel panorama del cinema italiano”. Un gran bel film, Nemmeno il destino, opera seconda di un giovanissimo regista di Torino, Daniele Gaglianone (I nostri anni), che ha firmato la regia e la sceneggiatura, liberamente tratta dall’omonimo romanzo di Gianfranco Bettin (Ed. Feltrinelli). Presentato in anteprima nazionale alla 61a Mostra del Cinema di Venezia, nell’ambito della Sezione “Giornate degli Autori”, e molto applaudito in sala, Nemmeno il destino è prodotto dal barese Domenico Procacci per la Fandango.
La storia di tre ragazzi che vivono in condizione di disagio sociale, a causa anche di mancanza d’attenzione all’interno della propria famiglia. Una sorta di solitudine, condivisa in tre. Se al primo, Alessandro, manca il padre, morto e mai conosciuto e con una madre che soffre di crisi depressive; il secondo, Ferdi, vive con il padre, un ex operaio di fabbrica ora ammalato di cancro e alcoolizzato; l’altro ancora, Toni, ben presto finisce per non lasciare traccia di sé.
Strano il destino a cui saranno votati i tre ragazzi? Assolutamente no, siamo nell’assoluta ‘normalità’, come può essere ormai, il suicidio di un giovane. Vuoi per mancanza di lavoro, per carenze d’affetto o d’altro. Semmai cambiano le modalità per farla finita. Perciò, Ferdi si suicida in modo ‘esemplare’, gettandosi con il motorino dall’ultimo piano di un palazzo in costruzione. Anche Alessandro porrà a dura prova la stessa rabbia che ha provato prima di lui Ferdi e in un gesto ‘non tanto folle’, brucia la casa dove avevano vissuto due amici di famiglia, prima di essere sfrattati. Il suo destino? L’affido ad un riformatorio. Per ri-formare chi o/e che cosa?
Nemmeno il destino ha la forza, l’energia di un cinema, si è vero, raro, ma soprattutto ispirato e sincero. Utilizza attori non-attori e rende complice di tutta la storia lo spettatore, in prima persona. Una sorta di La Promesse, ma tutta italiana, pasoliniana, alla maniera di Ragazzi di vita.
Peccato che tra la prima e la seconda parte del film è evidente una spaccatura, che costituisce l’eccessiva ridondanza delle immagini, tutte sulla figura materna, ma basta poco perché il ritmo iniziale della storia, torni a farla da padrone.
Molti hanno parlato di ‘film-denuncia’, si, ma non certamente della solita denuncia a cui oggi ci sottopongono tristemente anche le fiction. Gaglianone, a tal proposito, non è il solito giovane regista furbo, che magari, approfittando della notizia bomba, gira una scena con l’allagamento di una scuola (siamo pronti a scommettere che tale idea farà parte di qualche nuovo film, magari di Muccino junior!). Gaglianone parla della scuola, forse indirettamente, ma in modo autentico: a scuola i tre ci vanno per poco e solo per scaldare il banco, perché i compagni, borghesi e ‘fighetti’, non potranno avere in comune con loro lo stesso destino, che consisterà nel passare le giornate a fare bagni nel fiume, bere vino, andare in giro con lo sgangherato motorino di Ferdi. Ma Gaglianone ‘denuncia’ anche una città, che resta indifferente dinanzi al destino di certe storie ai margini.
“Un film di orfani”, l’ha definito lo stesso Gaglianone, “adulti che non hanno più nulla da insegnare, perciò responsabili di figli orfani”. E’ questa la triste realtà con cui ci si sta abituando a convivere. Quando si parla tanto di mancanza di valori, non deve intendersi una manacanza vera e propria, quanto il vuoto ‘disoccupato’ da maestri (non di scuola) di vita, da genitori che han voglia di crescere coi loro figli (e non d’imporre regole di comportamento), da istituzioni (dalla scuola alla chiesa) pronte solo a stabilire regole rigide in cui far rientrare il ‘normale-anormale; lecito-illecito; grazia-peccato’. Non così ci si prepara anche ad affrontare un destino, che certamente non può essere sempre rose e fiori. “Le battaglie non si vincono mai”, afferma uno dei protagonisti del film di Gaglianone. Aggiungendo, poi: “Non si combattono nemmeno”.
Giancarlo Visitilli
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