Regia di David Lean vedi scheda film
Il film sbagliato di un grande regista, un mix malriuscito di realismo e romanticismo, che merita comunque una visione.
David Lean è stato negli anni del secondo Dopoguerra uno degli autori più importanti del cinema inglese, realizzando degli apprezzatissimi film (su tutti, Breve incontro e due trasposizioni da Dickens) che gli aprirono le porte delle grandi produzioni internazionali: arrivarono i trionfi di critica e (soprattutto) di pubblico del Fiume Kwai, di Lawrence, di Zivago. Il sensibile autore era diventato una macchina da incassi, capace di raccontare la grande storia del '900 a un pubblico che quella storia aveva vissuto, o comunque conosciuto. Ma se i due colonnelli magistralmente impersonati da Alec Guinness e Peter O'Toole avevano messo quasi tutti d'accordo, con Il dottor Zivago, in molti fra i critici e gli spettatori più esigenti storsero il naso di fronte alla banalizzazione del romanzo di Pasternak, con la Storia che diventa lo sfondo di una passione romantica. Il successo stratosferico del film fece passare in secondo piano le obiezioni dei cinefili. Purtroppo Lean non resistette alla tentazione di replicare questo schema per la produzione successiva, La figlia di Ryan, un film che doveva essere una trasposizione di Madame Bovary in ambiente irlandese: loro si amano, si sposano, non sono felici, e (questa la differenza più saliente con il romanzo) quando la Storia bussa alla loro porta il precario equilibrio della loro vita salta. Il film non fu affatto un fiasco, come di solito si ripete pigramente, ma certo fu lontano dagli incassi degli anni d'oro, e soprattutto fu massacrato dalla critica. Il regista fu talmente ferito da questo insuccesso da abbandonare la macchina da presa per una dozzina d'anni e dedicarsi al teatro. Tornerà al cinema nel 1983, realizzando a 76 anni lo splendido Passaggio in India, che gli consentirà di chiudere in bellezza la sua carriera.
Ma torniamo alla famiglia Ryan. Cosa non va nel film? Intanto le tre ore abbondanti di durata, che non paiono giustificate dallo sviluppo del racconto. Lo sfondo storico è la lotta irlandese per l'indipendenza, negli anni della Prima guerra mondiale (di nuovo...), argomento che già nel 1970 non penso potesse attrarre più di tanto il pubblico non anglosassone. Sappiamo tutti che la verde Irlanda ha un posto nel cuore di milioni di persone, e Lean almeno questa carta se l'è giocata bene: la fotografia del fedele Freddie Young è il punto di forza del film, almeno la scena della tempesta marina è indimenticabile. Ma il ritratto del villaggio è crudo, sgradevole, non è la bonaria Irlanda dell'Uomo tranquillo, è un'umanità abbrutita dalla miseria e dal pregiudizio. Rosy Ryan e Charles Shaughnessy si distinguono da loro, sono due anime delicate nate per sbaglio in quel buco senza futuro. Il ponte fra loro e la comunità è il burbero padre Collins, un Trevor Howard energico e umano, che penso avrebbe meritato il premio Oscar più dello storpio di John Mills (bravissimo, s'intende), ma sappiamo come l'Academy ami questi ruoli. Spiazza un po' sulle prime vedere il mitissimo Charles impersonato da Robert Mitchum, ma il bad boy della vecchia Hollywood negli anni aveva affinato il suo stile recitativo, e alla lunga convince. Bella e brava Sarah Miles (moglie dello sceneggiatore Robert Bolt), in un ruolo difficile. Bello e ... imbarazzante il maggiore Doryan di Christopher Jones, meteora cinematografica: nevroticissimo, inespressivo, soprattutto non convincente nemmeno come personaggio; l'esplosione della passione con Rosy al primo sguardo è una forzatura, in tre ore di film lo sceneggiatore non ha proprio trovato il tempo di graduare la loro attrazione... (sulla versione inglese di Wikipedia c'è un buffo retroscena sul rapporto fra il terzetto di attori: Mitchum era proprio un birbante).
Si ha l'impressione di una storia potenzialmente avvincente, ma sviluppata in modo poco credibile, con un mix di realismo crudo e folle romanticismo, che se ben ricordo già affiorava in Zivago, ma che stavolta non funziona. Colpa anche della ridondante colonna sonora di Maurice Jarre, con le sue marcette ossessive che in alcuni momenti stridono davvero con la situazione. In conclusione, se è vero che il cinema è una fetta di torta (Hitchcock), questo è un dolce malriuscito. Eppure, mi sento di consigliare la visione di questo film. Se siete nauseati dal cinema di plastica dei giorni nostri, forse amerete questa storia che procede col passo lento di un romanzo ottocentesco, un film imperfetto che parla di esseri umani imperfetti, l'opera sbagliata di un maestro che ha dato tanto al cinema, e a noi.
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