Regia di Jean-Jacques Annaud vedi scheda film
Sedici anni dopo aver seguito le avventure di un orso rimasto orfano che lotta per la sopravvivenza, Jean-Jacques Annaud (è ormai ozioso chiedersi se sia un bravo regista o solo un allestitore eclettico di storie inconsuete) ci porta in un ideale zoo antropomorfizzato, nella “pittoresca” cornice dei templi di un Sud est asiatico coloniale/turistico. Geografia e storia degli imperi perduti hanno in Marguerite Duras la cantatrice proustiana e in Annaud il collezionista di memorie (il regista ha trascritto, nel 1991, per lo schermo il romanzo durasiano L’amante). Dalla posizione verticale dell’orso all’orizzontalità delle tigri. Per lo spettatore è più semplice identificarsi con un aminale che sta su due zampe o con quadrupedi che gattonano? I due cuccioli Kumal e Sangha perdono i genitori (il fantasma di Bambi è dispotico e invadente) e sono separati dagli esseri umani (la solita ed antipatica specie inferiore): una finisce in un circo e l’altra, prima, in una casa come peluche animato e poi in una gabbia. Si ritroveranno nell’arena di un principe per un combattimento all’ultimo graffio e riveleranno di non essere solo istinto, ma memoria ed emozioni. I due felini protagonisti, la cui interpretazione è stata costruita grazie all’apporto di trenta diversi esemplari, sono, con smorfie e sguardi scintillanti, le star assolute di questa storia che può piacere ai più piccoli perché non ha l’andamento dei bei documentari sulla natura realizzati per la Tv.
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