Regia di Susanna Tamaro vedi scheda film
Il salotto buono del padre-padrone, isterico manager afflitto da superlavoro e da immotivata gelosia, è viscontiano. La moglie (la protagonista, che ricorda in flashback la storia del suo matrimonio e che viene da una classe più bassa e più gentile) veste sempre in sovratono, un po’ troppo attillata, un po’ troppo colorata; la figlia snob invece, prima di fuggire di casa, solo in tenui scozzesi Burberry. In casa del nonno montanaro e generoso, tutti indossano grossi maglioni fatti a mano con abeti, renne, cavalli, casette; e gomitoli e ferri da calza disposti in non casuale disordine restano a ricordare giorni migliori quando la casa è stata abbandonata da tempo. Un solitario eremita dipinge icone dal fondo dorato; i ragazzi riuniti a recitare passi del Vangelo hanno tutti occhi febbricitanti; la natura dilaga in un’invadente, ravvicinata bellezza, fiori, insetti, fili d’erba, acqua che scorre, foglie arrossate, neve che consola, sentieri accidentati che ti conducono all’incontro del destino cui aspira il tuo cuore. «L’aspetta qualcuno?», chiede il pittore alla sconosciuta che piomba nella sua baita. «No», risponde lei un po’ seccata. «Allora qualcuno la insegue», afferma lui con l’autorità di colui che sa. Scambio di battute imbarazzante, come quasi tutte quelle di Nel mio amore, primo lungometraggio di finzione di Susanna Tamaro (che negli anni ’80 diresse documentari naturalistici), nel quale la scrittrice spande “poesia” e “arte” a piene mani e ai quattro venti, senza accorgersi forse di navigare nelle acque insidiose del kitsch cinematografico, non quello esibito ed esaltato, ma quello finto-raffinato, trattenuto, sentenzioso. Sceneggiatura affastellata, ritmo salmondiante, recitazione da soap (sì, anche Licia Maglietta).
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