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Il diritto del più forte

Regia di Rainer Werner Fassbinder vedi scheda film

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La recensione su Il diritto del più forte

di MarioC
9 stelle

Fassbinder non ha mai avuto particolari timori, né remore, nel raccontare i rapporti di classe, le sue dinamiche inizialmente equilibrate, quindi declinanti lungo la china della sopraffazione e della affermazione del più forte. Il rapporto vittima-carnefice, debitore di una sin troppo evidente sindrome di Stoccolma, in un vuoto di senso ultimo rispetto al quale anche la possibilità di un amore paga le leggi del mercato, i regolamenti della economia, le obbligazioni del denaro che permeano di sé le vite di tutti, ostruendole, caricandole di fuliggine, infine distruggendole.

 

Per sé RWF si riserva il ruolo, nemmeno troppo casuale, di più debole, del buon selvaggio (Fox, la “testa parlante”, e forse non pensante, di un baraccone di provincia), del povero cristo abbacinato dal mito del Dio denaro, quindi preso al laccio della sognata e realizzata ricchezza, costretto dall’oggi al domani a confrontarsi con i meccanismi del benessere e della interazione di questi con altre persone, altri mondi, altri modelli di vita. RFW, l’intellettuale omosessuale, il genio bulimico, l’Aladino emarginato dalla società, chiuso nella propria lucidissima capacità di scarnificare il circostante. Non poteva esserci un Fox più vero dello stesso regista, un miserabile accattone che pensa di poter comprare la felicità con il lusso e l’ostentazione, salvo poi ritrovarsi nella cupezza di una disperazione senza fondo, svuotato, senza ulteriori vie di sbocco. Interessante è questo estremo tentativo di autocritica che Fassbinder realizza: non si compra nulla con il denaro, probabilmente nemmeno con l’arte, tantomeno con una diversità che è incapace di confronto, autistica, che si ciba senza un perché della luce di un genio fine a se stesso. Ma al di là di questo tentativo di lettura ad essere realmente interessante, ne Il diritto del più forte, è la messa in scena della impossibile osmosi tra mondi distanti che tentano di incrociarsi e compenetrarsi, nonché il ribaltamento dei luoghi comuni sulle dinamiche ed i rapporti di classe: l’industrialotto gay in evidente crisi economica, l’amante povero e negletto colpito da improvvisa sindrome di Creso, che offre se stesso e le proprie sostanze, in un rapporto che fa della malattia la sua costante, in un inesausto tentativo di trovare ali di romanticismo a corpi incapaci del benché minimo salto, tête-à-tête in cui l’amore è soltanto una variabile irraggiungibile, un fiume carsico che scorre parallelo e contiguo al nulla.

 

Benché con l’andamento della storia (a tratti anche ariosa, meno Kammerspiel rispetto agli ordinari standard di RFW, ma non per questo meno angosciosa) lo spettatore sia inevitabilmente spinto a provare compassione e pietà per il più debole (debole per censo e nascita, diremmo), per colui che, letteralmente, verrà spinto al suicidio dal tardivo svelamento di quelle impalcature di finzione che egli stesso aveva contribuito ad erigere, all’autore non interessa poi tanto questa comoda e conciliante chiave di lettura. Lo sfruttato e lo sfruttatore, ognuno con i suoi parametri di vita, le proprie convinzioni (e convenzioni) sociali, la propria cultura (la meno solida delle quali verrà inevitabilmente messa sotto scacco e smacco) sono soltanto esili figurine di un rondò sociale in cui i ruoli finiranno con il confondersi, in cui, in più di un tratto, il più forte pare essere quello che dispone della enorme leva del denaro, benché di bassa estrazione, di ceto sconfitto dalla storia delle storie, esaurito il quale resterà l’ignoranza, la antisocialità, la straccioneria messa alla berlina dal borghese compunto e profittatore. Il quale borghese, a sua volta, del tutto aduso ad utilizzare l’amore quale leva pitagorica e testa d’ariete, resterà solo con un denaro sporco, forse più forte, sicuramente più furbo, non per questo meno sconfitto. E, dunque, debole a sua volta. Certo non necessariamente il più forte.

 

Un Fassbinder lucidamente politico, dolente come sempre, sporco di un’ironia che non concede sconti e non fa prigionieri. I rapporti di classe come poche volte si son visti al cinema: melodrammatici ed esplosivi, freddi o inscatolati in tristissime scene madri. L’ultima delle quali, in una stazione della metro che pare il ritrovo di tutte le indifferenze e di tutti i cinismi del mondo, non si dimentica facilmente.

 

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