Regia di Andrzej Wajda vedi scheda film
Il film è del 1970, ma non dimostra gli anni che ha perché ha l’incanto delle opere senza tempo, o forse perché parla di cose eterne come le stagioni della natura e dell’uomo, i sentimenti e le illusioni, amore e morte.
Il giovane Stanislaw, dopo un periodo trascorso in un sanatorio in Svizzera per curare la tubercolosi, torna alla casa paterna immersa nella immobile campagna polacca ai margini di un magnifico bosco di betulle. Vi ritrova il fratello Boleslaw, guardia forestale, vedovo, e con una bambina alle soglie dell’adolescenza.
Il bosco di betulle è onnipresente: è attraversato da chi va e viene dalle poche casupole che sorgono attorno alla fattoria dei due fratelli; fra gli alberi è stata sepolta la giovane moglie di Boleslaw; i suoi esili tronchi bianchi si scorgono in ogni inquadratura, anche attraverso le finestre di ogni stanza,
Il rude Boleslaw appare sempre tetro e corrucciato, in collisione con tutti, incupito dalla morte della moglie (e pieno di rimorsi per non averla forse amata come meritava), teso, contrariato dalla malattia del fratello (tornato a casa per morire), confuso dalla presenza della sua bambina, Ola, che gli richiama la figura della moglie morta.
È infastidito soprattutto dalle ostentazioni di vitalità che il pallido Stanislaw porta in casa: il giovane ammalato infatti è sempre sereno e affettuoso, si mostra accondiscendente con tutti, esprime in ogni occasione una vitalità che stona con l’ambiente e le condizioni, si mostra sempre un po’ euforico e sopra le righe, ama immergersi nella natura felice della campagna che circonda la casa, veste di bianco come se fosse in villeggiatura; noleggia perfino un pianoforte contro il parere del fratello e lo strimpella riempiendo il silenzio con le sue suonate.
Boleslaw appare sempre rabbuiato, scontroso, insofferente, geloso dalla simpatia che il giovane tisico sollecita in Ola e irritato dalle avances che il fratello mette in atto verso Malina, una generosa vicina di casa (che Boleslaw evita a fatica, trattenuto della propria tormentata vedovanza).
Le schermaglie si sviluppano lente, in atmosfere rarefatte e sospese; il non detto prevale sui dialoghi, la fluidità pigra degli accadimenti ha l’andamento della bellissima primavera che arriva silenziosa e poi esplode indifferente alle vicende di questo piccolo mondo precario; una Natura - si potrebbe dire - leopardiana che scorre e non si cura delle persone infelici che la abitano, imperturbabile alle tribolazioni e ai rimpianti, indifferente agli amori e alla morte.
Personalmente preferisco questo Waida a quello politicizzato di altri film più famosi (L’uomo di marmo, L’uomo di ferro, …)
“Bosco di betulle” è anche il titolo di uno splendido quadro autunnale di Gustav Klimt.
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