Regia di Ingmar Bergman vedi scheda film
E' un Bergman per nulla riconciliato, anzi inacidito dalla vecchiaia, quello che si congeda dal cinema (e dalla vita). E' con un nichilismo ancora più asciutto del solito con cui il Maestro di Upssala delinea le coordinate del suo universo dominato dai più bestiali sentimenti di egoismo, angoscia, vergogna, nonchè da un frustrato bisogno di comunicare col prossimo per scongiurare lo spettro della solitudine e della morte. E per l'occasione, rispolvera vecchi cavalli di battaglia: il mutismo di Martha (da "Persona"), il confronto intergenerazionale fra Karin e i nonni (dal "Posto delle Fragole"), lo sguardo in macchina (da "Monica e il desiderio") etc...Purtroppo, "Sarabanda" non raggiunge i consueti livelli della cinematografia bergmaniana, adagiandosi ad un minimalismo della messinscena e ad un predominio della parola sull'immagine che fanno pensare a De Oliveira o Rohmer. Gli occasionali inserti di immagini extra-diegetiche, quando vengono menzionate (la natura, la foto di Anna, il corpo insanguinato di Henrik), risultano didascalici e ben poco espressivi. Si avverte un senso di stanchezza e di opacità; inoltre la struttura ellittica dovrebbe favorire uno sguardo "obliquo" su questa "famiglia" alla sbando, ma nella sostanza gli sviluppi psicologici appaiono piuttosto prevedibili. E' un peccato, ma ovviamente ciò non macchia minimamente una carriera sensazionale: nessuno al mondo, oltre a Bergman, ha saputo realizzare almeno 7 o 8 capolavori, tutti diversi fra di loro ma inconfondibilmente "bergmaniani", nel volgere di un decennio (da metà anni 50 circa al 1966), senza contare altri grandi film che hanno preceduto o seguito questa decade di grazia. Di "Sarabanda" rimane, ad ogni modo, un acre e risentito senso di odio, disperazione, autocommiserazione, sfacelo emotivo che nessun altro autore contemporaneo è in grado di trasmettere.
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