Regia di Pietro Germi vedi scheda film
Il duro realismo de "Il ferroviere" è fatto di composta rassegnazione, di rabbia compressa dietro la spessa corazza della dignità. Quando, sotto i colpi di un destino infame, l'unità e la solidarietà si spezzano, l'uomo è costretto a farsi monade per continuare a esistere: allora è istintivamente indotto a chiudersi ed allontanarsi per sottrarsi ad ulteriori attacchi. Questa - e non le smanie egoistiche o le velleità individualistiche – è la causa della disgregazione familiare dei Marcocci: Andrea, Giulia e Marcello scappano per cercare riparo dalle critiche ed accuse ed oblio rispetto alla pubblica umiliazione. La disgrazia sociale è scoprire che, a fronte di una sventura che ti è capitata, non conta più ciò che tu sei e sei sempre stato, ma solo il marchio negativo che da essa ti deriva. La tua persona sparisce dietro la nera cortina di una colpa, o anche solo il grigio alone di un sospetto: non c'è più possibilità di comunicare, condividere od amare, perché il mondo sta là fuori e ti respinge. Ritirarsi sempre più è allora la reazione naturale, ma così si innesca il tragico circolo vizioso della solitudine, della disistima verso se stessi, del desiderio di autoannientamento. La negazione della speranza (il suicidio, l'aborto spontaneo, la disoccupazione) è il tema di fondo di questo film, che procede veloce e inesorabile come un treno in corsa verso un orizzonte vuoto. In questo viaggio attraverso la mancanza di senso e di giustizia, ci accompagna la voce semplice e innocente del piccolo Sandro, che racconta ciò che vede e ascolta, però, a più riprese, mostra di non riuscire a comprendere.
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