Regia di Amos Gitai vedi scheda film
Sei giovani donne provenienti dalla Lituania attraversano il deserto scortate da un gruppo di beduini. Nottetempo avviene il primo stupro. Le ragazze sono in cerca di lavoro e anche se non si fanno grosse illusioni su quanto verrà loro offerto, scopriranno ben presto che la realtà è peggiore dei loro peggiori presagi. Al confine con Israele vengono vendute come animali al migliore offerente, poi, tra violenze e umiliazioni, finiscono in bordello di lusso. Se le leggi del mercato le hanno trasformate in merce per soli uomini, le figure femminili che incrociano sulla loro strada, da una nevrotica Anne Parillaud a una insinuante Hanna Schygulla, sono persino più inquietanti. Il loro calvario termina tra scoppi e urla in un piccolo club di Haïfa. Gitai spia i volti spaventati e attoniti delle ragazze di cui ignoriamo tutto perché nulla è stato lasciato loro, niente dignità, niente nome, niente passato. Sono solo prede, cose da usare a piacimento, come i giovani contadini di “Salò e le 120 giornate di Sodoma”, film con il quale “Terra promesa” ha diversi punti in comune. Anche Pasolini aveva dato volto e voce ai carnefici lasciando le vittime nell'ombra, pedine interscambiabili di un'unica massa indistinta, aumentando di molto il disagio dello spettatore a cui veniva negata una troppo facile e consolatoria identificazione. Solo verso la fine in un breve momento di riposo e di intimita due ragazze trovano la forza per parlare; ed ecco che subito il passato, dolcemente e dolorosamente riaffiora attraverso le ferite del presente. La cinepresa a spalla accentua l'impressione di realismo, di testimonianza rubata. Un film rabbioso, forte, importante.
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