Regia di Amos Gitai vedi scheda film
Le donne trattate letteralmente come bestie. Vendute all'asta, maneggiate, spogliate, esposte, prese in braccio per essere mostrate. Esseri umani ridotti a merce, materiale di scambio, variabili dipendenti del teorema microeconomico globale. A Gitai esce bene questa rappresentazione di un'economia in cui sesso e denaro sono gli unici fattori utili, mentre uomini e donne non sono altro che ombre. Viene in mente "Se questo è un uomo" di Levi, quando una doccia ghiacciata le massacra senza pietà. La prima parte è tutta tirata, tumultuosa, straziante, all'insegna di un oggettivismo di sguardo che non concede scappatoie intimiste: solo una pausa, un momento di penosissima tenerezza, quando l'ambigua megera cerca di consolare una prostituta in lacrime. Nella seconda parte, emerge il Gitai più spiazzante: compare una turista estone, dal ruolo misterioso, e il montaggio si infittisce, evocando immagini contrastanti, enigmatiche, talora angeliche. E' il tempo della memoria o della fantasia (o di una memoria collettiva, che necessita della fantasia per essere alimentata): un tempo "alla Resnais" che finisce però sempre per ricadere sull'incubo del presente e della realtà. Ricorrono due statiche, silenziose inquadrature sulla turista, mentre viene scrutata dalla prostituta, in cerca di una speranza di fuga. Speranza che diviene reale, nel modo più paradossale e tragico possibile, come dimostra il finale. Un film discutibile, proprio per la sua voluta disomogeneità, lo scarto radicale di tono fra la prima e la seconda parte, l'inserimento improvviso di elementi stranianti (anche a livello di colonna sonorra). Non solo realismo senza aggettivi, quindi. Da notare alcune finezze, come il fuoco, elemento simbolico polisemantico che compare in due momenti nettamente opposti del film. E' indefinitiva un film realista che sfocia in un simbolismo disperato.
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