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Terra promessa

Regia di Amos Gitai vedi scheda film

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La recensione su Terra promessa

di lao
8 stelle

TOLEDAD---Eva Loventhal nel suo “Eva e le altre” mette in evidenza come la parola storia in ebraico, “toledad”, sia femminile plurale e significhi generazioni: la donna dunque è colei che fa nascere il presente, mentre l’uomo è colui che dà il nome alle cose. E in “Hotel promised land” di Amos Gitai il riferimento implicito alla tradizione culturale giudaica evoca suggestive affinità fra eventi attuali e remoti ancora tragicamente e inconsciamente vivi nell’anima di un Paese dilaniato dalla sue mille contraddizioni: la fuga, la diaspora, la ricerca della terra promessa, la sua trasformazione, una volta trovata e diventata patria, in un inferno senza pace. Già l’inizio del lungometraggio è una magnifica rilettura dell’”Esodo”: un popolo di profughi cammina di notte nel deserto verso un mondo sconosciuto, destinato a divenire luogo di dannazione. L’analogia è scoperta: le ragazze dell’est, vendute all’asta e schiave nei bordelli d’Israele, sono parte di un nuovo popolo “eletto” vittima di olocausto contemporaneo e caratterizzato da una volontà di riscatto forse impossibile o molto al di là da venire. Toledad! Le donne sono coloro che “partoriscono” il presente e sono loro le depositarie di un sapere secolare di dolore e di subordinazione al maschio, a colui che dà il nome alle cose ovvero definisce le regole di una convivenza “incivile” costruita sull’ingiustizia e sull’odio reciproco. La storia è dunque dramma perennemente in atto, con le sue vittime e i suoi carnefici. La filmografia di Gitai non ha altre aspirazioni oltre quella di rappresentarlo, fotografandolo con epidermica partecipazione, nella situazione del suo Paese, una zona “aperta” all’incontro/ scontro fra genti dalla mentalità e dal vissuto eterogenei. Se poi “Hotel promised land” lascia l’impressione di una pellicola non compiuta, sfuggente nella caratterizzazione dei personaggi e nel delineare il contesto ambientale, si deve al suo essere solo un particolare sconvolgente di un gigantesco affresco: quasi tutti i film del regista israeliano sono in sé incompleti, in quanto illuminano solo un angolo di una realtà variegata, restituita in tutta la sua complessità dal quadro d’insieme a cui ogni opera dell’autore aggiunge un dettaglio significativo, inserendosi nello spazio intermedio fra la precisazione e la digressione fondamentale rispetto al già detto. Di fatto la scrittura filmica di Gitai privilegia la parentesi, ne dilata i confini, lasciando nell’ombra i punti di raccordo narrativi: l’asta nel deserto illuminata dalle torce, la doccia gelata sui corpi femminili nudi nel bordello/campo di concentramento, lo stupro, il volto in lacrime della giovane prigioniera e l’ambiguo affabulare della proprietaria del casino, il coro di giovinette vestite di bianco nel rito in chiesa in Estonia, simbolo di purezza a contrasto della turpitudine obbligata, la solidarietà tenera negli sguardi e nei gesti delle vittime e infine l’attentato terroristico e la fuga nelle vie solitarie della città notturna. Un universo paradossale dove i nemici storici, arabi e israeliani, sono complici nel vergogno commercio di schiave e dove bombe e kamikaze sono la voce disperata di chi aspira a una società libera e giusta, riflesso di un paradiso impossibile, la terra promessa da qui irraggiungibile.




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