Regia di Amos Gitai vedi scheda film
Il film di Amos Gitai è un'incursione nel mondo dello sfruttamento della prostituzione, girato con stile documentaristico, sempre in bilico tra narrazione classica e reportage. La sofferenza e l'umiliazione a cui queste donne sono sottoposte traspare chiaramente dai fotogrammi della pellicola. Emblematica, in questo senso, la scena in cui le donne vengono vendute all'asta nel deserto, come se fossero oggetti, statue, sculture, opere d'arte da maneggiare, nemmeno tanto con cura. Concetto questo, quello della mercificazione del corpo, tra l'altro espresso in modo efficace dalle parole della stessa protagonista, in un prefinale rassegnato al tragico e triste destino. Ma non è questo il finale che Gitai vuole per il suo film, che infatti si chiude con una fuga tanto improbabile quanto ricca di speranza in un destino migliore, almeno dignitoso (quello che vediamo frammentato in una sorta di flashforward mentre le protagoniste sono ancora prigioniere). L'inferno della prostituzione è popolato da figure di esseri umani terribili e sorprende, scusate l'ingenuità, constatare come possano essere propio le donne a capo di queste organizzazioni di sfruttamento. Una volta di più, la "terra promessa" del titolo si rivela solo uno specchietto per le allodole, un'utopia, un miraggio, un'oasi in un deserto arido e sterile, quello delle relazioni umani. Sofferenza, brutalità e umiliazione sullo sfondo di una terra promessa capace di trasformarsi in un inferno.
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