Regia di Arnaud Desplechin vedi scheda film
Ismael viene ricoverato per errore in un ospedale psichiatrico dal quale uscirà in uno stato pietoso. Nora affronta l’agonia del padre parallelamente al riaffiorare dei suoi ricordi. Entrambi, dunque, sono prigionieri di se stessi e delle loro esistenze forzatamente claustrofobiche e conventuali (Nora è rinchiusa nell’ospedale di Grenoble). Annientati dalla solitudine, assaliti dai fantasmi. Anche se la donna reagisce alle sventure addirittura con gioia, con feroce autoironia. I due percorsi si toccano e poi si dividono. I due sono amanti e poi non lo sono più. È come se Desplechin avesse voglia di dirci che solo le donne possono convivere con la cupezza della vita, mentre gli uomini sono destinati inesorabilmente a rimanervi schiacciati. Quello del rigoroso autore francese (La vie des morts, La sentinelle, Comme je me suis disputé...) è un cinema dell’introspezione dolorosa, che sradica gli orpelli per arrivare dritto al cuore delle sofferenze. Autocompiaciuto come quasi tutti i film “parigini” degli ultimi venticinque anni, è comunque perfettamente recitato (Emmanuelle Devos è davvero, in questo momento, la migliore attrice francese), ben scritto, e girato come un regista medio italiano non saprebbe fare nemmeno dopo cinque anni di Centro Sperimentale di Cinematografia.
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