Regia di Johnnie To vedi scheda film
Dedicato al suo idolo Akira Kurosawa, “Throw Down” è uno dei lungometraggi più intimi del regista di Hong Kong Johnnie To. Qui non ci sono dei nemici ben definiti che dispensano morte e terrore, né sequenze di battaglie al fulmicotone. Il film, difatti, non è un action ordinario, e i pezzi delle baruffe vengono relegati ad una rappresentazione minimalista (e dalla formidabile profondità di campo). Il titolo, che letteralmente significa “precipitare in basso”, è una metafora sul metodo di lotta preferito da To, ovvero il Judo. Il perfetto equilibrio fisico e mentale, il quale sta alla base di questa disciplina, viene filtrato da un messaggio che sembra determinare cospicuamente le traversie dei protagonisti e può essere inteso seguendo il classico aforisma secondo cui “bisogna imparare a cadere e a rialzarsi”. Impeti di perseveranza ed esortazione perpetrano invero il cammino di redenzione di tre giovani dal passato funesto e il futuro incerto: Sze-to Bo (Louis Koo), campione di arti marziali, ora depresso e alcolizzato, che gestisce un locale malfamato in combutta con la criminalità organizzata; Tony (Aaron Kwok), un ammiratore di Sze, il quale decide di farsi assumere come sassofonista nel night di quest’ultimo, sperando di convincerlo ad affrontarlo in un combattimento; Mona (la bellissima Cherrie Ying), una cantante del Taiwan, costretta a prostituirsi, che vuole esibirsi nello stesso club per sfuggire ai suoi sfruttatori. Alcune infauste vicissitudini quali la comparsa di un vecchio avversario (Tony Leung) di Bo, intento a terminare una sfida incompiuta, e la fatale sconfitta del Maestro Cheng (Lo Hoi-pang) durante le olimpiadi, trascineranno i personaggi principali a una catarsi che li guiderà verso delle svolte cruciali, nonostante i pronostici non sempre felici: per accentuare il tratteggiamento delle maschere viene impiegata una fotografia rovente di Cheung Siu Keung, i cui dirozzati giochi di ombra e di luce suggeriscono gli sbalzi e i mutamenti dei travagliati stati introspettivi dei main character. Ma pur non essendo esente da soventi momenti di pathos, nonché da estemporanei isterismi (i quali verranno gradualmente compresi, non appena tutti i nodi verranno al pettine) lontani dal patetismo, il racconto è comunque logorato da uno script scostante, ove gli avvenimenti chiave e i cambi di posizione di figure rilevanti appaiono spesso ampollosi o abbozzati un un po’ alla carlona. Le idee narrative all’avanguardia, tra cui i dialoghi alternati con i malviventi all’interno del pub, o l'esuberante approccio “ottimistico” agli scontri, manifestato altresì negli attimi concitati in cui saranno esposte delle meste confessioni, non riescono a celare l’opacità di certi passaggi (ad esempio, non si mostrano esaurienti le sortite nelle sale giochi del gangster fissato con gli arcade, dove vengono espletati dei comportamenti o dei camuffamenti bislacchi e inspiegabilmente iperbolici). Quindi, ci si trova davanti ad un dramma “oddball” che sicuramente piacerà agli estimatori di To, benché si denoti qualche perplessità di troppo, dovuta alla fallacità o l’inconsistenza di parecchie venature del racconto.
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