Regia di Antonietta De Lillo vedi scheda film
Gli sviluppi della Rivoluzione Francese suscitarono in molti repubblicani napoletani la convinzione che fosse possibile il rovesciamento della monarchia borbonica nel Regno delle due Sicilie. Il percorso da intraprendere era però arduo e necessitava di tempo e mezzi adeguati per progettare l’impresa. Sia perché si andava ad intervenire in un contesto sociale e culturale molto diverso da quello francese, sia perché si doveva agire di nascosto per evitare la scure dei regnanti i quali, proprio in funzione anti francese, iniziarono una dura repressione contro chiunque mostrasse di avere simpatie giacobine. Ispirati dall’alto magistero di illustri filosofi come Gaetano Filangieri e Antonio Genovesi, i repubblicani partenopei si riunivano in circolo (al palazzo dei Serra di Cassano soprattutto) per ragionare sui metodi da adottare per aprire delle crepe nel gretto conservatorismo della casa borbonica. Non mancavano i contrasti, le differenze di vedute, e neanche una palese ingenuità d’atteggiamento, ma tutti erano uniti nel mostrare un dissenso radicale verso un sistema di cose che si voleva letteralmente rivoluzionare. Gli eventi a favore della causa repubblicana ebbero un’accelerata con l’avanzata dell’esercito napoleonico in Italia e culminarono, prima con la capitolazione dell’esercito borbonico e la fuga di Ferdinando IV e Maria Carolina lontano dalla capitale, e quindi con l’arrivo a Napoli delle truppe francesi comandate dal generale Jean Pierre Championnet, che prima di conquistare la città dovete sbaragliare l’orgogliosa resistenza dei “lazzari”. Con l’appoggio del comando francese, il 23 gennaio del 1799 venne proclamata la Repubblica Partenopea e l’instaurazione di un governo provvisorio chiamato a lavorare su radicali progetti di riforma e a redigere una Costituzione di impronta rivoluzionaria. Nacque anche un giornale, “Il Monitore”, voluto e diretto dalla nobile di origini portoghesi Eleonora Pimentel Fonseca, con lo scopo precipuo di educare il popolo al “mondo nuovo” che avanzava. Ma sin dagli inizi si palesarono problemi per la neonata Repubblica: l’analfabetismo del popolo e la scarsa conoscenza dei loro reali bisogni da parte dei nuovi governanti rendeva difficile la reciproca comunicazione; le risorse economiche erano scarse e i francesi stabilirono il pagamento di nuove tasse; creare un esercito regolare numeroso e ben addestrato era cosa quasi impossibile data la difficoltà enorme a cooptare volontari dalle masse. A fronte di questi problemi, i francesi abbandonarono presto Napoli lasciando da soli i Repubblicani napoletani a contrastare la controrivoluzione sanfedista capeggiata dal Cardinale Ruffo. La fiera resistenza dei patrioti durò fino al 22 giugno del 1799, quando dovettero soccombere sotto i colpi del nutrito esercito della Santa Fede. La restaurazione borbonica ebbe così inizio, mostrando la sua faccia più ottusa e feroce. Quasi tutti i Repubblicani vennero condannati a morte, sancendo così l’estinzione di una classe dirigente dall’alto valore etico e culturale.
Eleonora Pimentel Fonseca, Luisa Sanfelice, Mario Pagano, Domenico Cirillo, Gennaro Serra di cassano, Ignazio Ciaia, Melchiorre Delfico, Francesco Caracciolo, Pasquale Baffi, Cesare Peribelli, Giuseppe Logoteta, Annibale Giordano, Francesco Conforti, Vincenzo Cuoco, Carlo Lauberg, Vincenzo Russo, Domenico Fasulo, Emanuele De Deo, Giuliano Colonna, Antonio Piatti, Giuseppe Marra, Gabriele Manthonè.
Alla loro (e ad altre) intelligenza imbevuta di belle speranze si deve la memoria di una pagina di storia gloriosa. Un’esperienza eroica ed effimera insieme, perché alimentata dalla sola passione e dalle sole forze di persone disposte a morire per quello che intendevano realizzare. Un’esperienza da affrancare dall’oblio e tramandare di generazione in generazione.
Ispirato al bellissimo romanzo omonimo di Enzo Striano, “Il resto di niente” di Antonietta De Lillo è un film che ci porta a conoscere le vicende che culminarono con la breve esperienza della Repubblica Partenopea facendo fulcro sulle vicende esistenziali di Eleonora Pimentel Fonseca (una convincente Maria de Medeiros). Anche se non segue filologicamente l’andamento narrativo del libro, il film riesce a farne emergere i caratteri essenziali: l’indolenza orgogliosamente ostentata dei Borbone, la passività servile di larga parte della classe nobiliare napoletana, l’allegria improduttiva dei “lazzari”, il vitalismo speranzoso degli intellettuali napoletani, la scollatura tra il loro credo e il popolo minuto, l’atteggiamento superbioso degli “amici” francesi, l’impeto rivoluzionario e la ferocia controrivoluzionaria. Soprattutto, la De Lillo ci restituisce molto bene l’anima meditabonda di donna Leonora, la sua fragilità emotiva, il suo spirito combattivo, il suo indomito amore per la libertà. Una rivoluzionaria ante litteram, fosse solo per il fatto che sancì col suo comportamento che la felicità era un diritto verso cui ogni essere umano doveva tendere. La sua figura svetta su tutte le altre incarnando emblematicamente la tensione morale che si respirava negli ambienti illuministi del regno, da un lato, nutrita dalla saggia consapevolezza che tutti coloro che credevano nella rivoluzione stavano intraprendendo una sfida ardua con la storia, dall’altro lato, sorretta dalla sofferta convinzione che non si poteva fare altrimenti, che non si doveva recedere neanche di un millimetro dalla strada intrapresa, che si era disposti anche a morire se questo poteva servire da esempio concreto per le generazioni future. Pur aderendo all’urgenza di portare su schermo uno spaccato di storia poco conosciuto senza però apparire eccessivamente verbosi o didascalici, Antonietta De Lillo cerca di conferire al tutto un taglio quanto più cinematografico possibile partendo dal destrutturare i tempi della narrazione immergendoci in una sorta di flusso della memoria indirizzato dai pensieri e dalle paure di Eleonora. La sua figura di eroina inconsapevole irradia lungo tutto il film riflessioni sulla complessa delineazione della natura umana e sul senso del fare politica, inteso come momento di ricerca del buon equilibrio tra le istanze ideologiche che si vogliono perorare e i bisogni del popolo che si devono soddisfare. Questo avviene soprattutto durante gli incontri immaginari che Eleonora ha con Gaetano Filangieri (interpretato da Enzo Moscato), l’insigne giurista e filosofo morto poco prima dei moti insurrezionali, nume tutelare di tutti gli intellettuali napoletani (e non solo). Sospeso in una dimensione sognante, come a voler rimarcare il fatto che occorre legare ai buoni esempi passati la necessità di doverne produrre degl’altri, dal loro rapporto emerge tutta la difficoltà di far durare nel tempo una rivoluzione non capita dal popolo per quella che voleva essere. Anche quella sottile ingenuità che accompagnava le azioni dei patrioti, che se da un lato era da considerarsi un limite in quanto li portava a compiere azioni temerarie senza calcolarne troppo le conseguenze, dall’altro lato poteva anche rappresentare la vera forza di tutta l’impalcatura rivoluzionaria, perhè solo opponendosi con ingenua verginità di spirito allo status quo dominante era possibile pensare di realizzare l’impossibile. Questi incontri si frappongono ai resoconti esistenziali sulla vita di donna Leonora, dal suo arrivo a Napoli, quando era ancora bambina, fino alla comminazione della condanna a morte, passando per le esperienze di membro dell’Arcadia, di direttrice del “Monitore”, di moglie coraggiosa che ebbe il coraggio di ribellarsi ad un matrimonio infelice e di donna riconosciuta come punto centrale di tutta l’impresa rivoluzionaria. Impresa messa a punto insieme ad un variegato gruppo di intellettuali, di diversa formazione culturale ed estrazione sociale, non necessariamente uniti rispetto alla migliore strategia da adottare per giungere al fine di esautorare la Monarchia ed instaurare la Repubblica, ma tutte voci dissidenti ed appassionate votate alla lotta contro l’ordine costituito. Un gruppo di repubblicani sedotti dal vento nuovo proveniente dalla Francia e che spirava ormai in tutta Europa, erano pochi e male armati rispetto all’impresa ardua che volevano intraprendere, ma animati tutti dalla convinzione che la storia gli offriva l’opportunità di affrancarsi dalle spire opprimenti della monarchia borbonica e iniziare ad essere padroni del proprio destino. Persone che scelsero la lotta per cercare di migliorare lo stato generale delle cose piuttosto che parassitare sulle rendite di posizione acquisite. La difficoltà più grande che dovevano affrontare era quella di confrontarsi con la distanza siderale che li divideva dal popolo, che mostrava di preferire le sicurezze minime determinate da un servilismo radicato nelle viscere della propria condizione sociale a “misteriosi” salti nel vuoto conditi da conquiste che non sapeva apprezzare. Non era sufficiente un tratto di penna per trasformare dei lazzari in cittadini. È in quest’ottica che la figura di Eleonora Pimentel Fonseca assume un ruolo centrale all’interno delle vicende rivoluzionarie, aspetto messo bene in evidenza dal film. La nobildonna era convinta che propedeutica per la buona riuscita dell’impresa doveva essere l’educazione dei “lazzari”, che era colpa di come erano sempre stati trattati dai Borbone se si erano abituati a vivere in una condizione di anarchia senza regole, a bearsi della loro spensierata allegrezza, a pensare che il massimo cui poter tendere era di “desiderare la felicità selvaggia del saccheggio”. Il punto stava proprio nel dare le risposte più appropriate a tutta una serie di quesiti legati alla natura antropologica di un popolo tutt’altro che abituato a sentirsi come parte integrante di una società civile in fieri.
Come trasportare gli ideali ispiratori della Rivoluzione francese in una realtà molto diversa come quella del Regno delle due Sicilie? Come trasmettere i nuovi valori anche alle provincie più remote del regno? Come diffondere capillarmente “Il Monitore” se il popolo cui era rivolto non sapeva ne leggere ne tantomeno scrivere? Come fargli capire l'importanza di sentirsi dei cittadini se per secoli erano stati abituati a rimanere dei sudditi indigenti sotto l'ala protettiva di sovrani? Come far capire ai lazzari che le conquiste repubblicane rappresentavano una grande offerta di emancipazione offerta loro? Che queste conquiste comportavano fare dei sacrifici e assumersi delle responsabilità civiche a loro totalmente sconosciute? Come penetrarli nel profondo se anche gli intellettuali napoletani conoscevano poco la loro effettiva natura? E soprattutto, come convincerli della bontà dell’impresa se anche gli “amici” francesi si comportavano da padroni abbandonandosi ad ogni bassezza e dopo poche settimana abbandonarono la capitale al proprio destino? Tutte domande che si intrecciavano con lo sviluppo vorticoso degli eventi e che si legavano alla necessità contingente di dover convivere con la contraddizione palese di parlare un linguaggio nuovo pensato per il popolo ma che il popolo stesso non poteva comprendere perché sprovvisto anche degli strumenti più elementari per poterlo fare.
Il problema era una monarchia che mai si preoccupò più di tanto di adottare le riforme necessarie per migliore le condizioni di vita del popolo, che alimentò sempre l'attitudine dei numerosi "lazzari" ad arrangiarsi con quello che aveva a portata di mano tirando a campare giorno per giorno. Educato a servire sempre nuovi padroni, rimaneva fedele a chi il minimo garantito glielo faceva concepire come una gentile concessione scaturita dalla magnanimità di chi deteneva il comando. Istintivamente portato a convivere con una concezione fatalistica della vita, per il popolo minuto, oltre il soddisfacimento impellente dei primari bisogni, non si poteva fare proprio niente. Il resto di niente. Un espressione che ha finito per simboleggiare la fine gloriosa di una generazione di intellettuali votati al martirio.
Un popolo è anche il frutto di come si è sviluppata nel corso dei secoli la sua storia. Per questo motivo, sono ben accette quelle opere capaci di offrire delle attendibili chiavi di lettura sugli intrigati rapporti di causa effetto tra ciò che si è seminato e quello che ancora si raccoglie. “Il resto di niente” rientra tra questa opere, e oltre a consigliare la visione del film di Antonietta De Lillo, consiglio anche la lettura del bellissimo romanzo storico di Enzo Striano.
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