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The Manchurian Candidate

Regia di Jonathan Demme vedi scheda film

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La recensione su The Manchurian Candidate

di (spopola) 1726792
8 stelle

Quasi un reality dai risvolti leggermente futuribili, ma anche la parafrasi di una terribile verità, già subdolamente operativa nel concreto. Eccellente la regia di Demme, misurata e trascinante allo stesso tempo, che ha il pregio non indifferente di riuscire a nobilitare e far diventare militante un film tutto sommato “di genere” come questo.

Una metafora attualissima e sconvolgente sull’America e non solo. La rilettura aggiornata dell’ormai mitico Và e uccidi di John Frankenheimer (1962), che anticipava singolarmente - e con eccezionale preveggenza – le origini e le “modalità” dell’omicidio Kennedy, si adegua perfettamente ai tempi e alle “condizioni” della politica contemporanea, spostando l’asse portante dell’attenzione, sui rapporti e le connessioni tra “questo” potere e quello più subdolo e sotterraneo, ma prioritario, dell’economia, e diventando così, con il suo “sovvertimento delle competenze” che assegna proprio alle multinazionali il ruolo del burattinaio e relega invece quello del presidente della nazione (qualunque bandiera o colore rappresenti) a semplice pupazzo lobotomizzato “asservito” e ossequiente, uno specchio solo leggermente deformato della realtà. Quasi un reality dai risvolti leggermente futuribili insomma, ma anche la parafrasi di una terribile verità, già subdolamente operativa nel concreto. Tenendo conto di questo nuovo criterio interpretativo dei fatti, la rielaborazione della sceneggiatura che era alla base dell’opera di Frankenheimer (di George Axelroad tratta dal romanzo di Richard Condom) realizzata da Daniel Pyne e Dean Georgaris, indebolisce forse un poco l’inquietante ambiguità dell’originale (che gli eventi successivi avrebbe fortemente amplificato), ma rende maggiormente esplicita e accentuata la preoccupata “denuncia” degli inaccettabili compromessi che inquinano il sistema, rendendolo pericolosamente infido, e radicalizza la visione con un pessimismo senza speranza che lo slittamento finale verso un epilogo che deraglia un po’ troppo nel versante fantascientifico (di “comodo”, inutile e fuorviante) non riesce ad annacquare. Il messaggio rimane chiaro ed eloquente nell’evidenziare i mali e le minacce (che qui non sono poi semplicemente tali ma rappresentano il “cancro” che già corrode e contamina un apparato in fase di progressiva putrefazione). Come sempre eccellente la regia di Demme, misurata e trascinante allo stesso tempo, che ha il pregio non indifferente di riuscire a nobilitare e far diventare “militante” un film tutto sommato “di genere” come questo. Rimane semmai il rammarico che questa prestigiosa firma, dopo l’insuccesso di Beloved, facendo di necessità virtù, sia di fatto costretta a realizzare solo ciò “che passa il mercato” (o che gli studios permettono di concretizzare), rinunciando alla sua autorialità più spiccata e profonda, anche se “formalmente” se la cava molto bene e trova ugualmente il modo, come nel caso attuale, di “graffiare” con unghie sufficientemente affilate. Che dire poi degli interpreti? Liev Schreiber è una gradita sorpresa (quasi una inaspettata “rivelazione”, vista la scarsa conoscenza che avevo della sua “arte recitativa”). Qui è del tutto adeguato al ruolo, confermandosi un nome che meriterebbe certamente maggiore attenzione, considerate le sue notevolissime capacità interpretative e “mimetiche”. Meryl Sreep poi…credo davvero che non esistano aggettivi appropriati per esaltare la sua immensa bravura. E’ straordinaria e stupefacente la sua duttilità di interprete e la gigantesca professionalità con la quale affronta e “risolve” ogni personaggio che le viene affidato, capace come è di far sembrare tutto “semplice e normale”: per ogni carattere che “rappresenta”, una Meryl diversa che acquisisce “movimenti” (delle mani, del volto o della voce) così differenziati e aderenti da lasciare addirittura increduli. Un mostro di bravura che da sola varrebbe la visione del film, e ancora una volta assolutamente da oscar. Penso invece che per Washington non si possa andare oltre la sufficienza : è “bravino”, compìto e zelante (forse però un po’ meno incisivo del suo abituale standard), attonito e spaesato come richiesto dal personaggio ma un pò troppo sottotono. Non riesce insomma a convincermi del tutto. Rimane poi il problema già evidenziato del finale (ma come dicevo sopra, resta un peccato veniale facilmente perdonabile) che vorremmo considerare il compromesso produttivo imposto – e accettato – per poter arrivare alla realizzazione pratica del progetto.

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