Regia di Michael Mann vedi scheda film
Un killer arriva a Los Angeles per uccidere quattro uomini che devono testimoniare a un processo contro un boss e la procuratrice distrettuale che sosterrà l’accusa: per muoversi da un punto all’altro della città prende un taxi, il cui conducente diventa un ostaggio. Se si prescinde dall’inverosimiglianza di fondo (l’ultima vittima è l’avvocatessa che il taxista, guarda caso, aveva conosciuto la sera stessa e che gli aveva provvidenzialmente dato il suo numero di telefono: siamo a Los Angeles o in un villaggio di montagna?), lo spettacolo è godibilissimo: uno dei risultati più alti di Michael Mann. Tutto in una notte, durante la quale si incrociano i destini di due personaggi inizialmente agli antipodi. Vincent parla in modo suadente, ha un’inossidabile etica professionale, ama il jazz e fa deliziose battute sardoniche ("Ci manca solo la cavalleria polacca"): insomma è paradossalmente simpatico, anche perché in fondo quelli che fa fuori sono autentici criminali. Max è un omino puntiglioso, affidabile, bloccato dall’irresolutezza: non sa decidersi a dare una svolta alla propria esistenza stagnante, ma ora ha l’occasione di farlo. Senza nulla togliere alle magistrali scene d’azione, i loro confronti verbali sono la cosa migliore del film: il fattore umano vi si rivela in modo molto più fine che nel troppo celebrato Heat, apprezzabile più per il carisma attoriale di Pacino e De Niro che per la sapienza di sceneggiatura. Solo alla fine il dialogo trapassa nello scontro corpo a corpo, e in una constatazione amara: se un uomo muore su un vagone della metropolitana, pensi che qualcuno se ne accorga?
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