Regia di Alejandro Amenábar vedi scheda film
Ramón, da anni costretto in un letto, completamente paralizzato dal collo in giù, abituato a sorridere perché «quando non puoi scappare e dipendi totalmente dagli altri impari a piangere ridendo», deciso a procurarsi la morte per vie legali, senza mettere nei guai nessuna delle persone che lo aiutano, perché «vivere è un diritto, non un obbligo». Mare dentro di Alejandro Amenábar racconta la storia della sua lunga battaglia per raggiungere la morte, circondato da donne che lo accudiscono e lo amano, divise tra il desiderio di aiutarlo e quello di tenerlo in vita. Chiuso in una stanza, che si squarcia sulle sue improvvise visioni interne, i suoi ricordi, l’immagine del mare che lo ha accolto da giovane e poi lo ha stroncato, il film di Amenábar è una curiosa, calcolata miscela di rigoroso autocontrollo e di smaniante evasione immaginaria. Come si fosse messo dentro la testa e il cuore del protagonista (immobile, necessariamente sulla difensiva, protetto dall’autoironia) Amenábar raffredda l’emotività (che avrebbe potuto essere esplosiva), aiutato in questo dalla recitazione millimetrica di Javier Bardem. Ma nello stesso tempo non resiste alla sinuosa mobilità della macchina da presa, alle aperture che gli consentono i sogni e i desideri irrealizzabili del protagonista: gli zoom si avvicinano, brevi e scanditi, ai primissimi piani dei personaggi raccolti intorno al letto di Ramón; la musica classica (Wagner, Nessun dorma) che accompagna la sua solitudine sottolinea i voli (ripetuti) oltre la finestra di quella stanza; il tuffo in mare che gli è costato l’uso del corpo torna, secco come una frustata e avvolgente come una placenta, a segnare il passaggio tra la vita e la morte. Nel momento più bello del film, appunto quello dell’incidente raccontato a un’amica, tutta la vita gli passa davanti agli occhi, scandita dalla successione rapida delle fotografie dei volti, i luoghi, le ragazze amate. Ed è la vitalità suggestiva dello sguardo di Amenábar che in fondo ci fa capire perché Ramón vuole morire: perché non c’è musica, voce, affetto che tenga di fronte all’impossibilità di essere, e di riconoscere, se stessi.
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