Regia di Steven Spielberg vedi scheda film
Da qualche anno, uno degli sport critici più in voga, almeno in Italia, È “sparare su Spielberg”: troppo buono, troppo bravo, troppo favolistico. È stato detto di quella favola nerissima che era A.I. (dove la morte ti concede solo un attimo per rivedere una persona cara), come di quell’istantanea appena futuribile che era Minority Report (dove il nostro mondo è talmente carcerario che, per non restarne intrappolati, si può solo isolarsi nella solitudine della lettura). Avranno buon gioco i detrattori con questo Terminal, film lieve e quasi dichiaratamente “minore” (come non era Prova a prendermi, uno dei grandi film della passata stagione, nonostante l’apparente tono brillante), per il quale si è già citato a più riprese Frank Capra, al quale Spielberg si è apertamente rifatto, come a molta della commedia americana, sociale e rooseveltiana, degli anni ’30. E Capra sia. Buono solo in apparenza, attento alle numerose figure di contorno che rappresentano gli strati sociali e le fisionomie psicologiche del melting pot, capace di tratteggiare cattivi a tutto tondo che paiono usciti da un cartoon, sicuro che la solidarietà tra onesti disgraziati alla fine trionferà, abile nel trasformare storie ai confini della realtà in minuziosi, realistici apologhi quotidiani: Spielberg ha ereditato queste caratteristiche da Frank Capra, oltre a una folgorante scansione dei dialoghi, all’abilissima orchestrazione dei personaggi, alla percezione profonda di una malinconia esistenziale e di un’ingiustizia non sotterranea ricorrenti nel nostro mondo. The Terminal è una scommessa, tra il personale dell’aeroporto e il passeggero senza patria Viktor Navorski, sulle sue possibilità di sopravvivenza all’interno del terminal internazionale e del Gate 67, e tra Spielberg e gli spettatori, sulle sue capacità di tenerci agganciati in quello spazio chiuso e quell’evento minuscolo per 132 minuti. La vincono entrambi, i due solitari sognatori. Qualcuno dice già che il film è noioso, non abbastanza kafkiano. No, è “capriano”. Ma questo non è forse un complimento?
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