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Fedora

Regia di Billy Wilder vedi scheda film

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La recensione su Fedora

di LorCio
10 stelle

Cerchiamo di capire subito chi è Fedora. Fedora è stata la più grande attrice del suo tempo, nonostante le sia stato sempre negato l’Oscar, ma d’improvviso scomparve dalla circolazione. Come la Garbo (trasversalmente citata nel film d’immaginazione Vacanze a Taormina – la meta siciliana era un luogo d’elezione nelle vacanze della Divina), si ritirò in un silenzio inaccessibile. C’è un produttore spiantato americano, che l’ha amata in gioventù, che arriva a Corfù per proporle di ritornare sullo schermo. E qui comincia un’altra storia. Perché Fedora non è solo la grande attrice nascosta e ritirata: Fedora è la personificazione di un cinema che non c’è più e di conseguenza è la rappresentazione della sua morte, o meglio ancora della sua decadenza. Il cinema di Fedora è il cinema che voleva alzare la testa dopo la tragedia della guerra, il cinema apparentemente colto che in realtà rifiuta la letteratura lontana dalla vita (emblematico è il disprezzo della Contessa nei confronti di Tolstoj, che non capiva nulla di donne perché Anna Karenina non si sarebbe mai buttata sotto un treno per amore), il cinema dello star system, il cinema della carriera senza famiglia. E poi c’è un’altra caratteristica: le persone (anzi, i personaggi) come Fedora non possono fare a meno di recitare. E sta qui il perno fondamentale dell’intero film: sta nel gioco a rimpiattino fra realtà ed immaginazione, finzione scenica e mondo reale, nell’illusione del concreto. La decadenza esteticamente barocca dei personaggi (una contessa polacca decrepita che vi riserverà più di una sorpresa; un medico-santone che ha fallito un’operazione; una vecchia governante tedesca tuttofare; Fedora) si riflette anche nella villa di Corfù, espressione di un mondo che non riesce più ad entrare in uno schermo cinematografico.

 

Come in Viale del tramonto, quel geniaccio di Billy Wilder mette in scena una indagine sentimentale e nera sul mistero del cinema, ponendo come paradigma la ricerca di un mito (mentre nel film del 1950 Gloria Swanson non era oggetto di una ricerca, ma soggetto di un inatteso inconscio tangibilmente onirico) che diventa ossessione del produttore (personaggio in cui si riversa il regista), andando al di là della vita. Fedora parla di tante cose: parla di mancate famiglie sfasciate eppure unitissime, parla di madri tiranniche e figlie deboli, parla di incomunicabilità umana ed artistica, parla di eterna giovinezza, parla di paura del tempo che scorre. Ad amalgamare tutti gli elementi ci pensa il cinema, nei suoi nascondigli e con le sue elucubrazioni mentali. Se la prima parte si architetta come un raffreddato mèlo dal risvolto crepuscolare (tutti i personaggi di Fedora sono sul viale del tramonto), è la seconda parte (dalla morte di Fedora in poi), con flashback fondamentali inseriti con estreme acutezza e precisione, a colpire per magnifico stupore. Neanche sotto tortura rivelerò il colpo di scena. Basta osservare bene gli attori in scena in questa messinscena, dal vespertino ed alcolico William Holden (che Wilder lo conosce bene) alla meravigliosa Marthe Keller nel ruolo della carriera, dal dottor Josè Ferrer ai cammeoni di Henry Fonda come presidente dell’Academy e Michael York nella parte di se stesso, con più di un occhio di attenzione per Hildegard Knef, spesso scambiata per Marlene Dietrich (a cui era stato pensato di affidare il personaggio della Contessa) ma che recita una parte confondibile con mamminacara Joan Croawford (quella vera, non l’attrice – la donna, la madre).

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