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Innocenza selvaggia

Regia di Philippe Garrel vedi scheda film

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La recensione su Innocenza selvaggia

di Aquilant
8 stelle

Se c’è una cosa che non fa certamente difetto a Philippe Garrel è la mancanza di costanza nel perseguire le sue tematiche preferite passandole metodicamente al vaglio di una sensibilità straziata da esperienze di dolore che si rinnovano puntualmente ogni volta che una sua nuova uscita viene data alla luce, frutto di un ennesimo doloroso parto tutto cosparso da quel senso irrimediabile di perdita che costituisce la costante immutabile della sua opera. E che lo spinge ad indugiare a lungo con la sua macchina da presa totalmente esente da immotivati sussulti sui volti ripresi sovente in primo piano, dall’espressione quasi assente ma in realtà intenti a confrontarsi con l’arida concretezza di un mondo che ha smarrito ogni connotazione reale, da considerare ormai come un volatile punto di riferimento rispetto alle millimetriche coordinate di un passato che si presenta tuttora alla mente con estrema vividezza e rappresentabilità. Come nel caso presente, lo sguardo della macchina da presa è sempre perfettamente sintonizzato sulla frequenza mentale del regista in un continuo ed immoto frugare quasi a vuoto sulle pieghe dei volti, in un’eccessiva presa di confidenza nei confronti di quella che a prima vista può essere scambiata per remissività e che invece altro non è che una forzata assuefazione (non senza le dovute controindicazioni) alla replica di un tempo andato lasciato scivolare via senza cognizione di causa, quasi in sordina, da una personalità ignara del suo effettivo valore alla luce di un futuro travaglio mentale inteso a ricomporre pezzo per pezzo una nitida trama fatta ormai soltanto di luce morbidamente adagiata su di un candido schermo. Ed in questa “innocenza selvaggia”, tassello autoriale posto (ma soltanto ad un primo sguardo disattento) a rivangare i nefasti fasti di un passato quale severo monito alle future generazioni, Garrel ancora una volta rende pubbliche le sue “scatole del dolore”, più che mai consapevole della pericolosità insita nelle pieghe del ricordo, deciso a mostrare i rischi di una riesumazione a tutto campo dei frammenti di vita ormai estinta, capaci di reinnestare un processo di autodistruzione a guisa di un sinistro e maligno deja-vu. Ed ecco che finzione e realtà si accavallano incessantemente, dando luogo gradualmente ad un pericoloso processo di sovrapposizione in cui vetuste macerie si ricompongono sinistramente a ricreare ex novo un presente dallo svolgimento diverso ma dall’epilogo come ricalcato su carta carbone.
Ancora una volta il regista dimostra il suo profondo amore per la settima musa, dando vita ad una vicenda insita a tratti in un contesto metafilmico diretto a dimostrare la pericolosità d’uso del mezzo cinematografico come strumento di prevenzione. Cinema che da astrazione soggettivizzata si fa materia viva e pulsante, energia distruttiva all’ennesima potenza, tesa a succhiare la linfa vitale dei personaggi che vanno a costituire la sua ragione d’essere, inducendoli a rincorrere l’essenza di un reale ormai estinto che con un ultimo colpo di coda si riappropria della perduta identità. (E a te, bressoniana Linda81, questo commento non posso proprio NON dedicarlo, sperando che tu mi stia leggendo).

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