Regia di Sue Brooks vedi scheda film
LE APERTURE DEL CUORE---Brooks racconta con nuda semplicità un viaggio nel deserto australiano, durante il quale il figlio di un importante uomo d’affari giapponese e una geologa costretta a fargli compagnia per ragioni d’ufficio, si conoscono e dopo l’iniziale diffidenza diventano amici o qualcosa di più. In realtà è difficile dare una definizione precisa del legame che improvvisamente viene a nascere tra due personalità così lontane per cultura e sensibilità: impossibile parlare d’amore, perché l’uomo ama la moglie e fra i due, al di là di qualche scambio di tenerezze, non vi sono dichiarazioni sconvolgenti o romanticherie. Impossibile anche pensare a un’amicizia, giacché i loro caratteri affiorano gradualmente nei gesti, nell’espressioni dei loro volti e la loro esistenza passata resta sostanzialmente un mistero l’uno per l’altra e fra loro non vi sono mai confidenze troppo dettagliate, anche perché la lingua resta una barriera insormontabile ed essi trascorrono il tempo, prima del tragico epilogo, prima nel silenzio ostile, poi ridendo, scherzando sui buffi errori di pronuncia, contemplando le vaste solitudini, ammirando minuscole e affascinanti pietre vecchie di secoli, e scattando fotografie. A unirli non è neppure l’affinità nel dolore o una vita di frustrazioni, come avviene solitamente in pellicole del genere anche notevoli( ad esempio “I ponti di Madison County” di Eastwood) incentrate sulle prospettive aperte da un incontro inaspettato e brevissimo fra anime gemelle. Qui insoddisfazione, abbandono affettivo, il peso ingombrante dei doveri si intravedono appena, ma è una infelicità sottotono, non assoluta, mitigata dalla pacifica più che rassegnata accettazione del proprio destino. Non ci sono lamenti o la ricerca dell’eccezionalità sentimentale in nessuno dei due. La scintilla scocca però e ad accenderla non è certo la passione erotica ma un quid , quello che l’uomo cerca di spiegare alla donna scrivendole” sono nel deserto, il cielo è grande e io ho il cuore aperto”: l’uno consente all’altro di andare oltre il proprio angusto mondo di obblighi e certezze in un viaggio di esplorazione dell’incommensurabilità dell’esperienza umana. Da un lato il deserto, dall’altro la morte, di fronte alla cui vastità le diversità fra popoli ma anche fra mogli e amanti si annullano. Nel trasmettere la lezione di grande civiltà e rispetto la regia sceglie l’assoluta sobrietà di dettato, trapassando senza bruschi scarti dalla commedia alla tragedia: nessuna compiaciuta insistenza sulla suggestione dei paesaggi, una sceneggiatura priva di qualsiasi retorica, abile nel valorizzare i silenzi del dolore, l’incantevole giapponesità fanciullesca dell’interpretazione di Tsunashima e sullo sfondo un panorama selvaggio, il solo forse dove sono consentite le aperture del cuore.
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