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La febbre del sabato sera

Regia di John Badham vedi scheda film

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La recensione su La febbre del sabato sera

di Fabelman
8 stelle

Trasportati dalla più iconica e rappresentativa espressione della disco-music, un dramma che si consuma nel difficile e critico processo di crescita del suo protagonista, manifesto della voglia di emergere e delle difficoltà affrontate da un’intera generazione.

Film simbolo della disco music: giusto!

Icona rappresentativa di quella generazione a cavallo tra la fine della guerra del Vietnam (dunque post ‘68) e prima dello sbocciare degli anni 80: giusto!

Pellicola cult, diventata cult per via di scene cult da antologia messe in atto con notevole sagacia: giusto anche questo!

Tutto giusto, ma poche pellicole sono state stereotipate a tal punto da distorcere la percezione dello spettatore e l’immaginario collettivo, contaminandone la reputazione, come è accaduto per “La febbre del sabato sera”.

“Saturday Night Fever” (titolo originale) è un film serio, non solo parla di una generazione affinché essa ci si identifichi, ma parla ad una generazione.

Le difficoltà economiche di una famiglia italo-americana che vive nel contraddittorio contesto di Brooklyn, il giovane figlio che cerca il proprio posto nel mondo con tutte le sue contorte tentazioni mentre subisce i piagnistei (quotidiani) dei propri genitori insoddisfatti e insofferenti, il figlio modello più grande in preda ad una crisi esistenziale che rimescola i suoi valori e rivaluta il suo avvenire quale sacerdote; e poi un giovane ragazzo, della comitiva del protagonista, dall’emotività complessa che rifiuta di diventare padre e, talmente schiacciato dal peso, compirà il colpo di scena finale che segnerà il protagonista virando la sua leggerezza e superficialità verso un approccio più maturo; una ragazza desiderosa di essere amata ma respinta dall’oggetto del suo amore che annegherà le sue insoddisfazioni e delusioni nelle droghe e nella perdita della propria dignità.

Antony “Tony” Manero sarà sì superficiale, guascone e immaturo, ma possiede i propri valori e non li rinnega (la lealtà verso gli amici, l’affetto per la sua famiglia, beve solo gazzosa, rifiuta le droghe e di avere rapporti non protetti anche con chi mendica il suo amore), ha voglia di essere accettato e usa il suo talento per la danza per emergere e accalappiare consensi gongolando e crogiolando nell’ammirazione (ben meritata!).

È il ruolo che inaspettatamente lancia la carriera di un semi-sconosciuto John Travolta (meritatissima la candidatura agli Oscar come miglior attore protagonista) e del resto del cast (quello sì sconosciuto per via di un budget ridottissimo).

Il successo sarà clamoroso e planetario, veicolato da una colonna sonora semplicemente indimenticabile e da urlo: pezzo dopo pezzo i Bee Gees contribuiscono a scrivere pezzi di storia che avranno vita propria al di fuori del film, con musiche e testi eccelsi; l’album “Saturday Night Fever” divenne il disco più venduto di sempre (oltre 40 milioni di copie vendute - da ascoltare in vinile, ASSOLUTAMENTE), record che detenne fino al 1982 quando “Thriller” di Michael Jackson lo spodestò dal trono.

Al fianco di Travolta una bravissima Karen Lynn Gorney, che da vita all’indecifrabile personaggio di Stephanie Mangano, bravissima nel ballo e solo in apparenza più matura di Tony Manero, col quale condivide le stesse complessità che riuscirà a stento a mascherare ostentando sicurezze e millantando presunti successi.

Alla regia John Badham, praticamente al suo debutto, certamente bravo sia nelle sequenze da ballo che nel rendere fortemente realistico il clima familiare all’interno di casa Manero (forse le scene con il tocco più autoriale); comunque sia, fortuna per lui essersi trovato al momento giusto al posto giusto con la sceneggiatura giusta, i giusti interpreti e la storia (del cinema e non solo) pronta ad accoglierli a braccia aperte.

Una scena su tutte: (ripresi di spalle) Tony e Stephanie seduti su una panchina di fronte al ponte di Verrazzano; la più grande celebrità dell’Odyssey 2001 è lí a disquisire su vita, morte e miracoli (intesi come altezza, lunghezza, metri cubi di cemento, veicoli che lo attraversano e presunti cadaveri sepolti) di quel ponte che fa da sfondo e cornice ad un tenerissimo bacio sulla guancia da parte di lei (quì la camera è frontale) con gli occhi di Tony commossi e che sprigionano tutta la tenerezza di un ragazzo umanamente ed emotivamente (oltre che intellettualmente, data la disquisizione) più profondo di quanto dia a credere.

Tra una passeggiata sulle note di “Stayin’ Alive”, un appassionato ballo su “More than a woman” o uno scatenato (e quanto mai iconografico) con “You should be dancing”, e poi un tuffo al cuore con “How deep is your love”, la pellicola sancisce il capovolgimento degli stereotipi affibbiati ad una intera generazione e a se stessa: sorprenderà chi superficialmente lo considera superficiale, si rivelerà un film profondamente intenso e drammaticamente riflessivo per chi ha un animo sensibile e acuto, come Tony Manero.

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