Regia di Steno vedi scheda film
A proposito di Italia che fu, di crisi della commedia all’italiana e di scrittura della stessa, Febbre da cavallo si inserisce in un solco di interessante rappresentatività. Correva l’anno 1976 ed il cinema italiano dei nomi medi (per quanto Steno potesse e dovesse considerarsi un artigiano dalle fatture estremamente dignitose, un mestierante della macchina da presa con più di un picco interessante) era compresso tra gli echi del gloriosissimo passato e le nuove mode facili, che strizzavano l’occhio alla decadenza di costumi e cavalcavano tigri di complicità inesorabilmente tendente verso il basso. C’era bisogno di un ultimo colpo d’ala, la reunion di attori alquanto eterogenei, la costruzione di una storia che, utilizzando un ambiente ancora poco battuto, sfruttasse i piccoli lampi della comicità popolare, senza accenni di evidente volgarità (pur con qualche caduta nel macchiettismo becero) e con un plot che garantisse esalazioni di simpatia e propalazione di luoghi comuni terminologici tali da diventare, in seguito, memoria e reperto storico-archeologico di buona tenuta.
Questo fu, al suo apparire, Febbre da cavallo (e prima del non pronosticabile fenomeno per cui il film, abbastanza avulso dai circuiti ufficiali di trasmissione, divenne vero e proprio oggetto di culto attraverso ripetuti passaggi nelle televisioni locali del Lazio dove, secondo alcuni incontrollabili si dice, era capace di manifestarsi anche una volta a settimana): una gioiosa satira, senza alcuna pretesa politica ma anche senza alcuna corrività di intenti, sul mondo delle corse di cavalli e sul sottobosco che si agita intorno ad esso, fatto di sboroni romaneschi, galoppini senza arte né parte, perdigiorno con chiodo fisso, avvocati cialtroni e macellai infinocchiati dalla consueta italica arte di arrangiarsi. Una scrittura seriamente svagata, un fuoco di fila di battute memorabili, il rovesciamento dei ruoli che porta con sé l’inevitabile effetto comico (impagabile il giudice interpretato dal grande Adolfo Celi), nonché, vero asso nella manica, le virtù ed i vezzi del travestitismo di borgata, mirabilmente rappresentato, e non poteva essere altrimenti, dal quel Fregoli che fu ed è Gigi Proietti, attore di altissimo spessore culturale e tuttavia capace, nel corso di una lunga ed onorata carriera, di masticare con eguale dignità e saldezza testi sacri del teatro e frizzi e lazzi da vicolo romano. Accanto a lui, un giovane attore, di chiara estrazione cabarettistica: quell’Enrico Montesano, anima della Roma fintamente malandrina e seriamente disperata sotto la scorza del menefreghismo, che aveva avviato una frequentazione cinematografica per la verità ancora scarna e non di spessore (per quanto gli inizi lo avessero visto in coppia addirittura con il re del cambio d’identità: Alighiero Noschese) ed una carriera televisiva che, da lì ad un anno (1977), lo avrebbe portato all’ottimo one man show di Quantunque Io, esempio di una televisione di comicità pre Zelig e Colorado, incentrata su virtù attoriali non di secondo piano e su battute che avevano il raro pregio dell’apparenza semplice, pur in verità nascondendo un certosino lavoro di architettura. Per completare il quadro occorrevano comprimari di lusso e presa immediata: ecco, allora, il grande e mai troppo considerato Mario Carotenuto, i suoi occhiali postmoderni, la sua agiatezza ignorante, i suoi vanti urlati e vanagloriosi, ecco Catherine Spaak, attrice seria prestata ad un ruolo (forse inadeguato) di donna del popolo (estrazione in realtà un po’ tradita da un doppiaggio asettico), più una serie di caratteristi, con menzione particolare per il carneade (qui coprotagonista) Francesco De Rosa e per una giovanissima Marina Confalone.
Ci sarà un motivo per cui, ancor oggi, si ricordano le battute di Febbre da cavallo e si guarda con rinnovato piacere a quelle peripezie destinate al fallimento. C’era un talento indiscutibile nello sbozzare figurine nate dal niente che in seguito non sarà facilmente rinnovato, c’era la capacità di delineare i personaggi e non accontentarsi di semplici accenni alla loro psiche o al loro vissuto. C’era l’odore dell’ambiente che si faceva forza e memoria, a partire dalla sferzante e perfetta onomastica (Er Pomata, Mandrake, Manzotin, King, Soldatino e D’Artagnan – i cavalli! - ) per finire alla interazione tra contesto indolente e vite da piccolo teatro Fescennino, senza tralasciare la musichetta che ti entra in testa e non se ne va più. Qualche caduta nella macchietta meno riuscita (ad esempio il personaggio della sorella con la fiatella – brutta rima, invenzione un po’ così, forse non necessaria se non a fini strettamente ma un po’ bassamente comici - ) non intacca il senso generale dell’opera, quel sentore di leggerezza che occulta benissimo la malinconia delle giornate povere e senza futuro, il girare a vuoto facendosi forza con le cazzate e le prese per i fondelli da Amici miei para-ostiensi, elementi serviti sul piatto d’argento della memorabilità da un gruppo di attori quasi in stato di grazia. Un film maschio senza rischio: diciamolo, e che il Dio dell’ippica ci perdoni.
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