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Il fabbricante di gattini

Regia di Rainer Werner Fassbinder vedi scheda film

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Questo testo contiene anticipazioni sulla trama.

La recensione su Il fabbricante di gattini

di MarioC
7 stelle

Katzelmacher è il nomignolo con cui i tedeschi designano gli immigrati dell’Europa del Sud. Termine dispregiativo, dunque, e di disprezzo, pur cristallizzato in una glacialità che a volte sconcerta, è impregnato Il fabbricante di gattini, secondo lungometraggio di Fassbinder. Ovviamente il regista, che trasse l’opera da una sua pièce teatrale, scaglia il suo manifesto furore soprattutto contro una certa piccola borghesia tedesca, impegnata a diluire le giornate tra sesso noioso ed annoiato, scambi di partner che assomigliano ad un cambio di biancheria, marchette segrete e, soprattutto, giudizi trinciati in un chiacchiericcio banale e ripetitivo, nell’apparente rifugio rappresentato da un quartiere pressochè invisibile.

 

L’apparizione del diverso (un immigrato greco, interpretato dallo stesso Fassbinder, che conosce due o tre parole basiche della lingua tedesca) sconvolge equilibri già di per sé assai precari. Iniziano le illazioni e le supposizioni, figlie illegittime di un malcelato senso di superiorià etica e morale: Jorgos è via via visto quale mendicante, povero ed imbelle straccione, maschio superdotato ed in costante infoiamento, elemento estraneo e disturbante da ricondurre all’ordine attraverso quella che si suole definire una lezione. In definitiva l’immigrato è il buon selvaggio non integrabile, il burattino senza coscienza in grado di corrompere la monoliticità di un aggregato nazional-sociale (non a caso si usano queste parole, evocative del periodo più drammatico e controverso della storia tedesca). Lo strano amore tra Jorgos ed una donna del gruppo (la musa di Fassbinder Hanna Schygulla) spinge le reazioni dei personaggi sino alle estreme conseguenze. Il greco va rimpatriato, a forza di percosse ed insulti a lui incomprensibili (straziante la scena dell’immigrato che brinda a birra con coloro che, intanto, gliene stanno dicendo di tutti i colori, programmandone il pestaggio).

 

Scopertissimo apologo antifascista, Il fabbricante di gattini, nella sua apparente banalità, nella sua rivendicazione di uno stile asciugato sino alla decolorazione di ambienti, anime e psicologie, è opera totalmente fassbinderiana, abitata da un’ironia ed una disperazione che, a volte, diventano indistinguibili. La telecamera inquadra i personaggi nella loro fissità e quasi li inchioda ad una vita che, infestata da elementi e manufatti interiori di bassa lega, si constata pervasa da noia e pochezza assolute. Il tocco di Fassbinder sta nell’ingenerare un senso di pietas verso le meschinità e le piccole corruzioni, nel lambire le disperazioni con un tocco di umorismo nerissimo e surreale (le voci che si rincorrono incontrollate e perlopiù false sulle caratteristiche del greco, le passeggiate delle varie coppie nel quartiere, a mostrare ed ostentare un impettimento che è semplice ansia di riconoscibilità sociale), nel lasciare che parlino, più che le immagini, dialoghi di pochezza programmatica in grado di rendere palpabile il disagio esistenziale di una società tedesca alla deriva.  

 

 

 

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