Regia di Alessandro Colizzi vedi scheda film
Un’involuzione esistenziale che non lascia scampo? Nelle intenzioni, Fino a farti male - secondo lungometraggio di Alessandro Colizzi dopo L’ospite - circonda i suoi personaggi in una dimensione seminata di smarrimenti sentimentali. Marc, agente musicale, torna da un viaggio di lavoro all’estero e scopre che l’adorata e amatissima moglie, Martina, gli nasconde qualcosa di profondo e inquietante. La donna, infatti, ha un relazione con Lara, conosciuta in un maneggio. L’impossibilità di essere e sentirsi “normale”, l’apparente consapevolezza di poter donarsi e ricevere da entrambi, la portano alle soglie del suicidio. La ricerca disperata di Marc, incredulo e meravigliato, scosso e deluso, prende così la forma di un percorso accidentato e lastricato di menzogne e non-detti, di fughe e deviazioni, di scontri rimandati e rimozioni. Fino all’inevitabile faccia a faccia che, in realtà, risolverà poco o nulla. Un dramma borghese, dove una Roma dai connotati depistanti, avrebbe una gran voglia di trovarsi altrove, probabilmente in Francia. E un conseguente film intrappolato nella sua rigidità, in un copione che - involontariamente - scambia le ellissi con i malintesi, in un reparto caratteri che non riesce a (di)spiegare i personaggi che (non) l’affollano. Le ambizioni degli sceneggiatori (il regista e la sua complice, Silvia Cossu) sono - come si dice in questi casi - alte. I risultati - come si vorrebbe ogni tanto poter finalmente dire - vanno nella direzione opposta, verso cioè un’elucubrazione fine a se stessa, priva d’anima e di autentica passione. La tragedia interiore che affligge Martina non avvolge, coinvolge e influenza nessuno. Anche perché la partecipazione artistica ed emotiva di Agnese Nano è esageratamente trattenuta. Al punto da domandarsi se per colpa di una incapacità strutturale da parte dell’attrice o per demerito di una direzione troppo occupata a guardarsi l’ombelico. Note positive, invece, per quanto riguarda Christopher Buchholz, un Marc d’essenziale rigore, che qui pare ricordarsi di una grande lezione attoriale del passato recente: quei dolorosi sguardi incespugliati tra le sfumature impercettibili del Daniel Auteuil di Un cuore in inverno.
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