Regia di Aleksandr Medvedkin vedi scheda film
L’espressionismo russo incontra la favola, la comica e il teatro delle marionette. Aleksandr Medvedkin ci regala un’allegoria circense, claunesca ed acrobatica, sulla sete di denaro: una fiaba anticapitalista, antizarista ed anticlericale, il cui protagonista è il povero Khmyr, un contadino sfruttato e depredato di tutti i suoi averi dalle autorità politiche e religiose; ed un uomo rovinato, in ogni senso, dal suo desiderio di ricchezza. L’ingenua fantasia del sogno e il duro simbolismo della propaganda si uniscono in un quadro poeticamente grottesco, avente i tratti di un’icona bizantina un po’ naïf, con le forme sproporzionate, i contorni marcati, la prospettiva schiacciata, e un gusto infantile per la trasfigurazione romantica. In mezzo a maschere, animali ammaestrati, equilibrismi, sincronismi da giocattolo meccanico, questo film confeziona il suo messaggio sociale nella cartapesta di un piccolo mondo incantato. La coreografia perfettamente orchestrata, che fonde armonicamente ritratto individuale e coralità, fa pensare alla miniatura stilizzata di un Sergei Ejzenstejn: una sintesi rozza ma pregnante, tagliata con l’accetta per farne una scultura agreste e popolare. Spaventapasseri sono definiti, nell’introduzione, i personaggi della storia: figure legnose, inchiodate al loro ruolo, che si lasciano comandare dal vento della sorte e del potere. L’avvento del nuovo è celebrato riducendo il vecchio – la realtà della Russia imperiale – ad un triste carosello, i cui movimenti rigidi e ripetitivi ricordano gli scatti di un ingranaggio arrugginito. Questa ciclicità perversa e senza futuro è l’eternità dell’inferno, in cui si può, come Khmyr, essere inviati dodici volte al fronte ed essere uccisi sette volte nei combattimenti sui Carpazi. Essa è, contemporaneamente, anche la malefica spirale dell’avidità, che ispira crimini e provoca disastri; ed è efficacemente rappresentata, in una scena, da un trattore che continua a girare in tondo, intorno ad un pezzo di pane ed una bottiglia di vodka, tracciando cerchi concentrici nel terreno. Il bene comune nasce dal lavoro, mentre ladri ed ubriaconi sono nemici dell’umanità. I furfanti che riescono a rubare un intero granaio, staccandolo di netto dalle fondamenta, sono portatori di una forza demoniaca, sono gli operatori di una nefanda magia, ed hanno infatti l’aspetto selvatico e mostruoso dei folletti; per contro, la contadina Anna che, dalla cima di un carro traboccante di frutti della terra, li colpisce coi cocomeri, ha l’aura di una dea guerriera, a metà strada tra Cibele ed Era. La rivoluzione assume qui una veste fiabesca, citando la mitologia greca, dal supplizio di Sisifo alla botte della Danaidi. E la sua parabola si conclude, sorprendentemente, nell’ultima scena, con un riferimento all’urbanizzazione che ricorda da vicino lo stile del primo Chaplin: quello Charlot intelligentemente goffo e saggiamente vagabondo che, anni prima del memorabile finale di Tempi Moderni, sembra di vedere già adesso mentre, gettandosi alle spalle il suo infelice passato, si incammina, sorridente, con la donna del suo cuore, verso un orizzonte libero e lontano. La felicità è la delicata bigiotteria a cui si riduce la retorica quando si lascia mitigare dalla modestia ed investire dall’immaginazione: un’incursione in un mondo delle idee che assomiglia tanto al mondo dei balocchi, e che riempie di gioia lo sguardo, al fine di distrarre il pensiero.
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