Regia di Luis Buñuel vedi scheda film
“Avete visto? Questo è proprio l'esempio di come non bisogna bere Martini Dry.”
“Bisogna anche capirlo: Maurizio è un uomo del popolo! Non ha avuto un'educazione…”
“Ah, nessun sistema potrà mai dare al popolo tutta l'auspicabile raffinatezza. Eppure voi mi conoscete: io non sono un reazionario.”
A causa di un disguido, salta improvvisamente la cena raffinata in programma a casa di Henri Sénéchal (Jean-Pierre Cassel) e della moglie Alice (Stéphane Audran). Poco male, gli invitati rimedieranno tutti insieme quando Henri sarà di nuovo presente e intanto andranno a mangiare un boccone fuori, su proposta di François Thévenot (Paul Frankeur). Ma anche quest'idea improvvisata naufraga, per colpa di un'assurda veglia funebre.
Rafael Dacosta (Fernando Rey), influente ambasciatore della Repubblica di Miranda, l'indomani fissa un nuovo appuntamento per cenare insieme, sempre dai Sénéchal; in questa occasione, però, degli improvvisi pruriti sessuali hanno la meglio sui padroni di casa, che così non si presentano ad accogliere i loro ospiti, i quali se ne vanno quando Florence (Bulle Ogier), sorella della signora Thévenot (Delphine Seyrig), è già ubriaca persa.
Si profilano nuovi tentativi, facendo unire anche il monsignor Dufour (Julien Bertheau), propostosi ai Sénéchal come giardiniere della loro tenuta. Ma ogni convivio fallisce nell'arrivare a termine, con impedimenti che si fanno sempre più assurdi, fino al punto di essere interrotti da narrazioni di sogni o da sogni stessi e fino a rivelare la perpetua inconcludenza e le meschinità di questi viziosi soggetti…
Parto da zero: sono pressoché digiuno del cinema di Luis Buñuel; ho apprezzato molto il manifesto “Un chien andalou” e – in misura leggermente minore - “L'angelo sterminatore”, film che ho trovato di per sé superbo per ingegno e intenti, ma la cui visione mi ha lasciato sensazioni molto vaghe e stemperate nel tempo. Conosco vita e temi dell'autore spagnolo, prima emigrato in Francia e Messico e poi tornato pressoché da esule in Francia, dove ha potuto coniugare la vena surrealista degli esordi (accompagnati nientemeno che da Salvador Dalí) ad invettive antiborghesi e anticlericali, che nel regime franchista non avrebbero trovato ospitalità.
Forte di cotanta ignoranza ma ormai sufficientemente introdotto al cinema buñueliano, mi sono goduto “Il fascino discreto della borghesia” per il capolavoro sensoriale che rappresenta: da una parte incomprensibile arzigogolo di sogni e sberleffi, dall'altra brillante e intelligibile canzonatura di rituali, modi e convenzioni (alto) borghesi.
L'idea nasce da un aneddoto narrato dal produttore Serge Silberman, da cui Buñuel partì a scrivere tutto assieme allo sceneggiatore Jean-Claude Carrière, infilandovi dentro anche molti sogni occorsigli. Proprio per questo è difficile trovare un significato ad ogni scena, attitudine che inoltre porta ad una generale sovrainterpretazione del film; il messaggio generale è – per così dire – di grana grossa (l'accenno allo spaccio di cocaina è un esempio di tale immediatezza) ed è ben esemplificato dalla ricorrente scena in cui i protagonisti percorrono una strada apparentemente senza fine e spoglia, simbolo del loro eterno vagare in un'agiata trappola, del loro perpetuo atto mancato.
Cerebrale e demolitorio, l'impianto di “Il fascino discreto della borghesia” è implacabile coi suoi stessi protagonisti, costretti nella seconda parte a capovolgimenti incredibili (preludio al parossistico lavoro successivo “Il fantasma della libertà”), tronfi carnefici e al contempo stolide vittime di sogni e assurdità. Borghesia, clero e forze dell'ordine sono legati da un doppio filo (si veda quello d'erba fra i capelli di Sénéchal), fra controllo reciproco, impunità e complicità.
Un'ulteriore, piccola presa in giro di Buñuel è tutta per lo spettatore, stupidamente risoluto a voler capire la materia onirica e filmica: vari effetti sonori coprono dialoghi che si preannunciano importanti, lasciando insoddisfatta ogni curiosità razionale.
“Il fascino discreto della borghesia” è stato premiato con l'Oscar per il miglior film in lingua straniera nel '73. Solo che Buñuel detestava l'Academy e non si presentò. Per amor di relazioni, il 73enne regista si fece poi fotografare con l'ambita (da altri) statuetta, ma con una parrucca e dei bizzarri occhiali che lo rendevano irriconoscibile. Per quel poco che ne so, farsi prendere in giro da Buñuel è una gioia!
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