Regia di Luis Buñuel vedi scheda film
I personaggi di L’angelo sterminatore, per motivi oscuri, non riuscivano a lasciare la sala dove avevano cenato: dieci anni dopo, questi non riescono più neanche a consumare la cena. Il film è una lunga serie di salamelecchi e contrattempi (che provocano a loro volta altri salamelecchi per scusarsene), ma soprattutto di sogni: sogni che prendono il sopravvento su realtà troppo insulse per avere una vita autonoma. L’esistenza dei sei protagonisti si riduce a pulsioni elementari: il cibo, il sesso; l’attività più complicata a cui si dedicano è un traffico di droga dall’improbabile repubblica sudamericana di cui uno di loro è ambasciatore. Ci sono ovviamente i pilastri della reazione, ma hanno l’apparenza abbastanza innocua: il clero (un vescovo si ricicla come giardiniere), l’esercito (un plotone di soldati partecipa a esercitazioni in cui nulla sembra andare come previsto), la polizia (un commissario è subito pronto a obbedire al ministro che gli chiede di rilasciare i suoi amici). E ci sono quelli che il sistema vorrebbero abbatterlo, ma nemmeno loro sembrano pericolosi (la terrorista si fa sorprendere come una principiante dalla sua vittima). Insomma, Buñuel sembra dire, questa società parassitaria è destinata a crollare per un’implosione, per la sua sazietà, non per un attacco esterno. A differenza che nella canzone di Claudio Lolli (“Vecchia piccola borghesia, vecchia gente di casa mia, / per piccina che tu sia il vento un giorno ti spazzerà via”), non ci aspetta nessun cataclisma. Rumori di fondo coprono i dialoghi nei momenti cruciali, ma viene da chiedersi cosa ci sarà mai di tanto importante da nascondere. Dove porti la strada di campagna che i sei percorrono, non lo sanno né loro né il regista.
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