Regia di Jafar Panahi vedi scheda film
Il continuo di umiliazioni infertegli dalla vita spinge un uomo ad un gesto di ribellione che si risolve in tragedia. Il film non ce lo nasconde fin dai primi minuti, passando poi i rimanenti a spiegare il perché di quell'atto. La prima reazione è che Panahi ci vada giù più duro, rispetto al suo maestro Kiarostami, nella critica alla società iraniana di oggi. Poi, però, basta leggere che l'autore della sceneggiatura è proprio Kiarostami e allora le distinzioni devono farsi più sfumate. Ma resta la critica inflessibile ad un sistema in cui si sommano i guasti di un paese in cui un corpo di guardie (che ricorda la psicopolizia di 1984) ferma chi partecipa ad una festa da ballo a quelli tipici di una società capitalista, dove un poveraccio non può entrare in una gioielleria (se non armato di pistola), perché il proprietario lo rispedisce, con tatto ipocrita, verso "i bazar della città bassa". Un film del genere non è nuovo, perché nel cinema occidentale storie simili si sono già viste, basti pensare ai reduci della Resistenza diventati malfattori in Italia o ai reietti americani, tornati in patria dopo avere perso la guerra in Vietnam. Ma questo ragazzone, spedito in guerra contro l'Iraq quando aveva tra i diciotto e i diciannove anni (afferma di avere avuto diciassette/diciotto anni ai tempi della Rivoluzione) non può non provocare un moto di umana pietà e compassione, ma anche di rabbia verso la società che lo spinge - e quasi costringe - alla rivolta violenta.
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