Regia di Henning Carlsen vedi scheda film
Uno scrittore cerca l’ispirazione. E intanto soffre la fame. L’unica cosa che può mangiare è la carta, dopo avervi annotato frasi da dimenticare. Fuori dalla finestra, e al di là delle vetrine, scorge un mondo col quale ha perso il contatto. Ceste di pane appena sfornato. Orologi che segnano il tempo. Gente che lavora. Uomini e donne che abitano in appartamenti ben arredati, e conducono una normale vita di relazione. A lui restano soltanto gli incubi notturni, i sogni ad occhi aperti, ed un paio di scarpe rotte, con cui spesso è tentato di dialogare. Mentre aspetta invano di realizzare il tanto agognato capolavoro, l’uomo perde anche la casa. E si trova dunque costretto ad andare ramingo per le strade, con una coperta sdrucita – il suo unico avere – arrotolata sotto il braccio. E con tanta vergogna per la sua condizione. Questo recital dell’emarginazione è uno spettacolo in cui la città costituisce lo sfondo reale, mentre l’artista interpreta la finzione, la messinscena di una dignità per sempre perduta. E intanto K. P. – di lui conosciamo solo le iniziali – bussa a tante porte: a volte lo fa per il semplice gusto di bussare, e vedere che qualcuno apre. La disperazione chiama la follia: è il suo modo di aggrapparsi alla vita, illudendosi che le cose continuino a muoversi. Il vagabondaggio è un girotondo che salva dalla rassegnazione. E a quel poeta squattrinato non manca certo la fantasia per inventare storie e situazioni, come un amore impossibile ed una improbabile felicità. Più che sperare, quello sventurato aspetta, fiducioso, l’imminente avverarsi dei suoi sogni, rivolgendo a se stesso quella pietosa menzogna che, inizialmente, era stata pensata per gli altri, compresi i derelitti come lui. A tutti deve apparire come un uomo ricco ed appagato, a costo di dover assumere atteggiamenti arroganti. Questa recita fa parte del suo personale progetto di sopravvivenza, esattamente come lo è la sua ostentata volontà di ringraziare Dio. Questo one man show si protrae per quasi l’intera durata del film: la cronaca di un’agonia morale, certo struggente nella sostanza ed istrionica nella forma, ma in fin dei conti ripetitiva, come i reiterati tentativi del protagonista di piazzare, presso il banco dei pegni, oggetti privi di valore (i suoi occhiali, il cappello, i bottoni della giacca). Poi una improvvisa svolta nel racconto interviene a spezzare il ritmo, e a confondere le idee. D’un tratto, il protagonista e il suo destino risultano irriconoscibili. Il nonsense si fa ambiguo, vagamente subdolo e sprezzante, macchiando il pathos con una sorta di grottesca malizia. Un eccessivo spazio è dedicato, nell’ultima parte, alla rappresentazione di una passionalità poco credibile, che sembra venata da inspiegabili accenti parodistici. Le fanno da contorno elementi che si direbbero ironicamente ispirati all’intimismo ed al realismo del cinema di Dreyer, e paiono inseriti un po’ a caso, con scarsa omogeneità ed un deciso cambio di tono rispetto all’inizio. L’originalità del dramma sfocia, purtroppo, nell’artificiosità di uno sperimentalismo forse solo accennato, però maldestramente condotto, per chiudersi su un finale che dà il colpo di grazia alla coerenza. Con Fame, il regista danese Henning Carlsen ci introduce nell’universo fuori asse di un genio incompreso, lasciandoci per un po’ godere della sua beffarda visionarietà. Purtroppo il gioco alla lunga stanca e si fa tetro, e non bastano, per risollevarlo, i bizzarri diversivi attaccati in appendice.
La storia di Fame (Sult) si svolge nella Oslo del 1890, che allora si chiamava Kristiania. Il film è stato tratto dall’omonimo romanzo dello scrittore norvegese Knut Hamsun (1859-1952), vincitore, nel 1920, del premio Nobel per la letteratura.
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