Regia di Mario Bava vedi scheda film
"L'eternità è spezzata, tu lo hai potuto... Mi hai strappato alla terra che mi pesava come piombo. Questa volta non sei più sola: ti porterò il suo corpo e sarà la tua preda. Ella è nata e vissuta per questo, è identica a te: il fato si compie, Asa. Vivrai in lei, parlerai, sorriderai come lei e torneremo a vivere come una volta".
[Arturo Dominici e Barbara Steele]
"Nel XVII secolo si scatenò spietata e violenta la lotta contro quegli esseri mostruosi e assetati di sangue che le cronache del tempo chiamavano vampiri. I fratelli trovarono la forza di accusare i fratelli, e i padri i figli, perchè la terra fosse purificata da quella razza di feroci assassini. Ma prima di metterli a morte, la giustizia umana, anticipando il verdetto divino, bollò per sempre le carni maledette di quei mostri col segno rovente di Satana". È la sorte della strega Asa (Barbara Steele), appartenente alla stirpe dei principi Vajda della Moldavia, condannata a morte dal fratello inquisitore insieme al suo amante Igor Javutich (Arturo Dominici) e sepolta nella cripta di famiglia dopo aver scagliato una terribile maledizione: "La mia vendetta ricadrà su di te e sulla tua stirpe, perchè sarà nel sangue dei tuoi figli e dei figli dei tuoi figli che io vivrò la mia vita immortale e saranno loro a ridarmi la vita che tu ora vuoi togliermi. Io tornerò a tormentare e a distruggere nella notte dei tempi!". Due secoli dopo, il professor Thomas Kruvajan (Andrea Checchi) e il suo giovane assistente, il dottor Andrej Gorobec (John Richardson), diretti a Mosca per presenziare a un convegno medico, si imbattono, attraversando i boschi della Moldavia, proprio nelle rovine della chiesa dei Vajda e nei sepolcri di famiglia, dove, incuranti di leggende e maledizioni, scoperchiano incautamente la tomba di Asa. Incontrano anche l'affascinante discendente della strega, la principessa Katia (sempre Barbara Steele), che vive nel castello dei Vajda con il padre (Ivo Garrani) e il fratello Costantino (Enrico Olivieri):
"Vogliate scusarci se ci siamo permessi di entrare nella chiesa, la credevamo un rudere abbandonato e non abbiamo resistito alla curiosità. Tutto è così strano e misterioso qui...".
"E tutto va in rovina... Mio padre, il principe Vajda, si oppone a qualsiasi restauro di questa vecchia chiesa: questo, per lui, è un luogo maledetto".
Poi riprendono il viaggio, sostando in una locanda nella vicina Mirgorod, piccolo villaggio a un giorno di carrozza da Mosca. In piena notte vengono convocati al castello dei Vajda per soccorrere il principe, miracolosamente scampato all'aggressione di Igor Javutich: Asa e il suo antico amante, infatti, sono tornati in vita per esigere il loro tributo di sangue e placare, così, la propria sete di vendetta. È Igor, però, ad avere preceduto alla locanda lo stalliere del principe, attirando con l'inganno il professor Kruvajan nel castello, mentre Andrej, ubriaco, dorme nella sua camera. Il professore che accorre a visitare il principe sotto shock è ormai caduto vittima dei due diabolici amanti: il bacio letale di Asa, infatti, lo ha trasformato in vampiro. All'alba Andrej raggiunge il castello in cerca del professor Kruvajan, ma di lui non c'è traccia: il principe, inoltre, è stato trovato morto nel suo letto e il cadavere di Boris (Renato Terra), lo stalliere dei Vajda, rinvenuto in riva al fiume, entrambi in condizioni raccapriccianti, "come se il demonio l'avesse divorato dal di dentro". Andrej, sedotto dal fascino della principessa Katia, meravigliato per l'inaspettata scomparsa del professore e sconcertato dai misteri della vicenda, tenta di indagare su quei tragici avvenimenti ("Io sono medico e credo solo nella scienza, ma stavolta..."), mentre Asa e Igor tramano nell'oscurità i loro sanguinosi piani: grazie, però, al prezioso intervento del Pope (Antonio Pierfederici) del villaggio, Andrej riuscirà a porre fine all'orrendo contagio e alla maledizione della strega.
Con La maschera del demonio, suo esordio alla regia nel lungometraggio e gioiello seminale del nascente gothic-horror tricolore, Bava gioca mirabilmente con le suggestioni visive e sonore della messinscena per esaltare il macabro fascino delle atmosfere: dal cielo, sempre grigio e minaccioso, contro cui si stagliano ombre lugubri e inquietanti, ai rumori della natura, sferzata dalle raffiche del vento e dagli ululati dei lupi, il film lascia precipitare da subito lo spettatore in un vortice di angoscia e disperazione incombenti. L'evidente eccessività nell'evocazione del brivido, sospesa nell'artificiosità della ricostruzione ambientale e scenografica e sovraccaricata fino allo spasimo dagli interventi sonori (musica, vento, tuoni, ululati, cigolii, urla di terrore), si dissolve nella "rassegnata" accettazione dell'iper-(ir)realismo estremistico della messinscena. E lo spettatore, ugualmente catturato, si appassiona e sobbalza. Bava riparte dalle riuscite (pre)incursioni nel genere di Riccardo Freda, con cui collaborò per I vampiri e per Caltiki, il mostro immortale (del quale diresse alcune sequenze) e dal successo strepitoso di Dracula il vampiro della Hammer per comporre la sua ode appassionata a un cinema che è "artigianale" solo perchè affrancato, suo malgrado, dai lussi dell'industria, ma che resta sempre vitalissimo e incisivo, per certi versi geniale e, ovviamente, "efficiente". Il Mario Bava di La maschera del demonio "è" l'aulica macchina da presa della Nouvelle Vague (mobilissima, sfrontata, incalzante) al servizio di un genere "volgare" come l'horror: nell'inquadratura dello spillone infilato nell'occhio nasce tutto il cinema di Dario Argento, nei vermi nel teschio della strega c'è tutto quello di Lucio Fulci, nella martellata del boia sulla maschera del demonio (ideata dal padre di Bava, Eugenio) e negli zampilli di sangue che ne fuoriescono c'è l'alba dello splatter (e se il film fosse stato a colori sarebbe nato pure il gore...). Ed è innovazione, fascino retrò, seduzione spettacolare, tensione, essenzialità stilistica, angoscia, morbosità, erotismo, romantica sospensione dell'incredulità. Tratto dagli sceneggiatori (Ennio De Concini, il montatore Mario Serandrei e, non accreditato, Mario Bava), come racconta lo stesso regista, da una novella di Gogol, Il Vij ("Naturalmente il genio degli sceneggiatori, compreso il mio, fece sì che di Gogol non rimanesse assolutamente nulla"), La maschera del demonio, che si avvale del contributo di un cast tecnico di prim'ordine (dalla fotografia dello stesso Bava fino alla sorprendente raffinatezza degli effetti speciali) e lancerà tra le luci della ribalta una futura icona come Barbara Steele, porta in dono all'horror (ma non solo) alcune splendide sequenze: dal magnifico incipit, con l'imposizione della "maschera del demonio" sul volto della strega, all'arrivo del professor Kruvajan e del suo assistente tra le rovine della cripta dei Vajda ("Più di mille anni di lotte, di odî, di amori ormai non sono che polvere dentro questi sepolcri. Non resta che il ricordo delle antiche gesta: sue queste pietre è scritta la storia della Moldavia"), dal meraviglioso piano sequenza che presenta la famiglia dei Vajda nel salone del castello, con Katia che suona il pianoforte, suo fratello Costantino intento a lucidare un fucile e il padre seduto in poltrona davanti al camino con lo sguardo perso nel vuoto, alla gag con la figlia della locandiera, che ha paura ad andare da sola nella stalla a mungere il latte ("Sì, ma la stalla è vicina al vecchio cimitero"), breve e ironico prologo alla sequenza della resurrezione di Igor, dal bacio mortale tra Asa e il professore al rituale per liberare l'anima dalla dannazione (ovvero uno spillone infilato nell'occhio sinistro), dallo scheletro in decomposizione di Asa nascosto dal mantello nero al fuoco purificatore del finale. L'ammirazione nei suoi confronti e l'ammissione dell'influenza fondamentale di Bava nel loro immaginario cinematografico, da parte di registi come John Carpenter, Joe Dante e Tim Burton, tutti folgorati proprio da La maschera del demonio, testimonia l'assoluta potenza seduttiva di questa piccola grande gemma nella storia del cinema italiano.
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