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La maschera del demonio

Regia di Mario Bava vedi scheda film

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Questo testo contiene anticipazioni sulla trama.

La recensione su La maschera del demonio

di undying
10 stelle

Bava sancisce ufficialmente l'avvio del genere horror in Italia proponendo la donna come protagonista (Barbara Steele) nella duplice veste di mostro e vittima: motivo portante del filone gotico che seguirà. Tratto da Il Vij di Gogol', conferma la realtà produttiva della Galatea, casa artefice della cinematografia horror tricolore.

 

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Moldavia, XVII° secolo. Condannata per stregoneria, torturata e destinata al rogo assieme al suo amante, Asa (Barbara Steele) lancia una maledizione sui suoi accusatori, minacciandoli di perseguire la loro discendenza. Due secoli dopo, il professor Kruvajan e il suo assistente Andrej (John Richardson) casualmente scoprono la cripta che conserva i resti mortali di Asa, riportandola involontariamente in vita. Le attenzioni della strega ricadono su Katja Vajda (Barbara Steele), principessa discendente di Asa di cui si è invaghito Andrej, i cui lineamenti corrispondono a quelli dell'antenata. Dalla tomba emerge anche il fidanzato di Asa, responsabile di una serie di delitti compiuti nel castello dei Vajda.

 

"Realizzai come primo film La maschera del demonio, tratto da una novella di Gogol, ll Vij. Naturalmente il genio degli sceneggiatori, compreso il mio, fece sì che di Gogol non rimanesse assolutamente nulla. Comunque il film ebbe un grosso successo in America e da allora sono stato costretto a dibattermi tra vampiri, mostri, e streghe. E io che sono una persona mite e timorosa, che non ammazzerei nemmeno una zanzara per il sacro rispetto che ho di ogni forma di vita, sono stato sommerso da un lago di sangue brulicante di vampiri e morti a galla".

(Mario Bava) [1]

 

Ivo Garrani, Barbara Steele

La maschera del demonio (1960): Ivo Garrani, Barbara Steele

 

Le ironiche parole di Mario Bava, circa questo significativo esordio dietro la macchina da presa, definiscono alla perfezione quello che sarebbe poi diventato un iter nella sua carriera cinematografica: la debolezza delle sceneggiature (ereditata da Dario Argento) e l'essere costretto a confrontarsi con un genere che prometteva (recente era stato il successo del remake di Dracula prodotto dalla Hammer), a fronte di budget contenuti, un buon introito economico (non sarà di fatto così semplice: da questo punto di vista infatti Bava, a dispetto della qualità prodotta, andrà incontro a svariati flop commerciali). Sin da questa opera "prima" (ufficialmente poiché il cineasta già aveva dato, oltre che come effettista e direttore della fotografia pure come regista, rilevante contributo a Freda, prima dirigendo buona parte de I vampiri, quindi di Caltiki - Mostro immortale) emergono quelle caratteristiche che poi diventeranno "tipiche", definendo lo stile autoriale a tutto tondo di un ex direttore della fotografia che antepone giustamente (trattandosi di cinema) al testo l'immagine, spesso girando sequenze autonome, mini film dentro al film del tutto decontestualizzate rispetto alla sceneggiatura. Con uno sguardo al passato (rivolto però a produzioni estere, in quanto in Italia pellicole di genere horror erano quasi del tutto assenti) Bava dimostra di avere assimilato la lezione di Tod Browning e James Whale, prelevando dal primo il gusto per le scenografie cimiteriali e puramente gotiche (Dracula, 1931), dal secondo una certa inclinazione per la fotografia espressionista e una qui latente (ma in seguito assai marcata) venatura ironica. Nonostante i chiari punti di riferimento, Bava val però ben più di tutti i registi della scuderia Universal e Hammer messi assieme. Ecco allora che La maschera del demonio diventa per lo spettatore uno stimolante viaggio nel mondo onirico, in quello spazio tra sonno e veglia dove le narrativa e la logica sfumano lasciando spazio alle immagini. Immagini deliziose, eleganti, riprese con una tecnica all'avanguardia (brevi piano sequenza, soggettive irrazionali con punto di vista attribuito agli oggetti, sinuosi carrelli), in virtù di una macchina da presa, sempre in movimento pur se non manovrata a mano, che è la vera e propria protagonista. Una formalità grafica ineccepibile, cifra stilistica dell'autore, che verrà ripresa e perfezionata con l'uso del colore nell'episodio I Wurdalak presente nell'impareggiabile I tre volti della paura (1963). La capacità di circoscrivere situazioni estreme (si pensi alla durissima, per l'epoca, sequenza iniziale con la maschera del titolo, realizzata dal padre Eugenio Bava) in una cornice di ricercato, fine, tratto visivo dall'elegante gusto pittorico, è quella che attraversa l'intera filmografia di Bava, un regista dalle potenzialità incomprese destinato a essere rivalutato in maniera esponenziale con il trascorrere degli anni. Oltre a dare un senso, un seguito e finalmente identità all'horror italiano, La maschera del demonio ispira Roger Corman (il ciclo di pellicole tratte dai racconti brevi di Allan Poe): primo cineasta straniero a imitare/citare/omaggiare Bava, cui faranno seguito, senza soluzione di continuità, nomi importanti (Joe Dante e Tim Burton su tutti). Altro grande merito del lungometraggio consiste nell'avere reso protagonisti due personaggi femminili identici nell'aspetto ma antitetici nel carattere, un tema ricorrente nei gotici tricolore ben rappresentato da Barbara Steele, eccellente attrice emersa positivamente da questa memorabile esperienza e destinata a diventare una star nel/del genere.

 

scena

La maschera del demonio (1960): scena

 

La parola a Mario Bava [2]

 

"Ho rivisto La Maschera cinque anni fa (dichiarazione del 1979, n.d.r.) perché sono venuti gli americani che volevano rifarlo a colori. Ho mandato a monte l'affare perché io e mio figlio ci rotolavamo dalle risate vedendolo. Un film del terrore è già passato dopo due anni. Quello è stato l'unico film veramente curato, tutto girato con il dolly che oggi non si adopera più per il tempo e per economia. C'erano 60 segni per i carrelli, gli alto basso. Il macchinista diventava matto, però con il dolly si fanno le inquadrature come si deve: e si può alzare e abbassare. La fotografia la facevo io ed ero molto rapido, perché al massimo ci mettevo 7 minuti a mettere la luce, 12 minuti per fare un salone intero. La fotografia in un film del terrore è il 70%, dà tutta l'atmosfera. La cosa strana è che io, prima, manco sapevo che esistessero i vampiri. Da noi il vampiro non esiste."

 

Barbara Steele

La maschera del demonio (1960): Barbara Steele

 

Barbara Steele: la regina dell'horror tricolore 

(Articolo a cura di Fabio Giovannini)  [3]

 

"Quando Barbara Steele giunge a Roma per girare La maschera del demonio non sa una parola di italiano, ma parla bene francese («l'italiano è fondamentalmente il francese con una vocale alla fine... in fondo non era così difficile»). Del resto, sul set quasi tutti gli attori avrebbero recitato in inglese. Insieme a lei apparirà nel film il suo collega della Charm School, John Richardson, anche lui in Italia alla ricerca di maggior fortuna. Barbara e John sono alloggiati in un bellissimo hotel, in una suite con terrazze entrambi emozionati dall'esperienza italiana. Ogni mattina la portano con altri attori dall'hotel alla sala trucco, a bordo di una piccola Fiat e nella pausa pranzo si risaliva in macchina per andare in trattoria a bere vino e a consumare il cestino della produzione. Il compenso per Barbara Steele era stato definito in 7,7 milioni di lire, ma l'attrice ha affermato di non aver mai ricevuto un vero e proprio saldo per la sua prestazione: «Ci pagavano a giornata con dei pacchi di banconote italiane». Bava era alla prima prova come regista, con un passato da direttore della fotografia ed era stato il braccio destro di Riccardo Freda per il film che fece nascere il gotico cinematografico italiano, I vampiri (1957). Prodotto da Massimo De Rita per Galatea e Jolly Film, La maschera del demonio venne girato agli studi Titanus di Roma, al castello di Arsoli in provincia di Roma e all'orto botanico di Roma (e non a Villa Lante a Bagnaia come ipotizza erroneamente Tim Lucas nel suo ponderoso studio su Mario Bava). Le riprese avvennero tra marzo e maggio 1960 (altre fonti sostengono invece che la lavorazione sarebbe iniziata a giugno 1960, cfr. Alberto Pezzotta, Mario Bava, Il Castoro Cinema, Milano 2013): tutto in 7 settimane, più una di riprese aggiuntive. Il soggetto era dello stesso Bava, ispirato al racconto II Vij di Nikolaj Gogol', mentre la sceneggiatura portava la firma di Ennio De Concini e Mario Serandrei. Della splendida fotografia in bianco e nero si occupò Bava con l'operatore Ubaldo Terzano. Al contrario di altri film gotici prodotti successivamente in Italia, i nomi del cast non vennero anglicizzati con pseudonimi. Per Barbara Steele c'era il primo posto nei titoli di testa, con il cognome storpiato in "Steel", come accadrà successivamente in altri suoi film. [...] La maschera del demonio non proponeva solo l'immagine della donna a due volti (l'uno virginale, l'altro diabolico), ma nella sua carica trasgressiva suggeriva anche una demolizione della famiglia, vista come luogo di maledizioni e distruzione. Si allude tra l'altro all'incesto, quando il principe Vajda tenta di vampirizzare la figlia Katja. Accanto a queste coraggiose estremizzazioni, tipiche del cinema italiano di allora, ricorrono però situazioni-tipo dei vecchi horror della Universal (i villici che fanno giustizia sommaria con il fuoco), ma anche allusioni ai primi classici della Hammer (nelle scene finali Gorobec appoggia il crocifisso sulla fronte di Katia, per capire se è una vampira, citando di fatto una analoga scena del Dracula di Terence Fisher). [...] Giustamente la Steele ha sottolineato come il film fosse «più efficace sotto l'aspetto visivo che della trama. Tra l'altro, non è mai esistita la sceneggiatura definitiva di La maschera del demonio, ogni giorno ci venivano date nuove pagine: il copione veniva riscritto e modificato proprio mentre lo giravamo. Finché non ho visto una proiezione del film finito, non sono mai riuscita a immaginare come iniziava o come si concludeva». Per questo, che definirà «caos creativo», l'attrice ha sostenuto di non essersi resa conto che quanto stava girando sarebbe risultato, col tempo, un capolavoro del gotico italiano. Per lei era solo lavoro. [...] Barbara si è detta sempre sorpresa dalla popolarità e dalla longevità del film, che pensava non sarebbe mai stato visto fuori dall'Italia. Un successo imperituro, dato che la stessa Steele ha constatato oltre mezzo secolo dopo che alle convention e ai festival i fan le chiedevano autografi soprattutto su foto di quel film: «È meraviglioso che resti apprezzato e potente dopo tutti questi decenni. Sono davvero riconoscente». Ma la riconoscenza è controbilanciata da sentimenti meno positivi riguardo all'effetto del film di Bava sulle sue prospettive professionali. L'attrice, infatti, ha attribuito proprio a La maschera del demonio quel 'tatuaggio a vita' che a suo parere le condizionò la carriera: «Quel film mi ha dannata». Di certo La maschera del demonio ha avuto anche delle ripercussioni nella vita privata dell'attrice. Il figlio Jonathan, infatti, è stato sconvolto dalla visione del film, da bambino. Lo ha raccontato la stessa Steele: «Ricordo un suo incubo, quando era molto piccolo, sui tre anni. Jonathan era in uno stato terribile perché la sua baby sitter gli aveva fatto vedere Black Sunday in televisione. C'era quella scena tremenda, dove mi piantano sul volto la maschera orribile con i chiodi. È stato davvero traumatico per Jonathan. I bambini piccoli pensano che la televisione sia reale quando hanno tre anni. Volevo uccidere quella baby sitter...». Quella scena in apertura del film, quando il martello le conficca la maschera sul volto, è stata sempre giudicata da Barbara Steele molto scioccante, in particolare per i giovani maschi: «Se vedevi quel film a 14 o 15 anni, soprattutto la scena iniziale, era un colpo al cuore, uno shock. E questo già prima dei titoli di testa...». Nel corso del tempo Barbara Steele ha maturato sul film di Bava delle riflessioni degne di studiosi del cinema."

 

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La maschera del demonio (1960): scena

 

Critica 

 

"Roma, 1960: Mario Bava esordisce con un horror, senza una vera tradizione produttiva alle spalle, senza un contesto culturale, tant'è che cerca ispirazione in un racconto di Gogol', Il Vij, alternativo ai vampiri della Hammer e fonte di immagini inedite, a partire dal sarcofago che esplode. E immagina in un primo momento un'ambientazione contemporanea, salvo ripiegare (è il momento in cui intervengono De Concini e Serandrei?) su un Ottocento favoloso, che è poi un espediente per evocare il fantastico classico, l'unico che conosce. Tutt'altro che un divoratore di celluloide, Bava è rimasto fermo alla carrozza di Nosferatu, ai corridoi di La bella e la bestia... non cita, rende omaggio. Direttore della fotografia e finalmente regista di se stesso, Bava si sente libero, e lo mostra: e spiazza anche la censura, che reagisce con un ovvio 'v.m. 16 anni', ma non interviene a limare azzardi splatter e putrefazioni necrofiliache, su cui invece calano le forbici nei paesi anglofoni [...] Bava da una parte intuisce che è inevitabile mescolare erotismo e orrore, paura e desiderio, giocando sui temi del doppio, dell'ambiguità e della belle dame sans merci come se volesse aggiungere un ultimo capitolo a La carne, la morte e il diavolo nella letteratura romantica. E sul duplice physique du rôle di strega seducente e vittima polposa, Barbara Steele costruirà una carriera di star. D'altro lato, Bava ha intuizioni precise nella messa in scena del fantastico, privilegiando il piano-sequenza, la fluidità dei carrelli che esplorano spazi minacciosi e si distaccano dai personaggi. E costruisce una visione in bilico tra l'oggettività della macchina-cinema che si spinge bramosa a scoprire il proibito, e la semi-soggettiva perturbante, sguardo di presenze fantasmatiche. Ancora pochi zoom, nel 1960: Bava regista nasce classico. E ancora pochi sberleffi, se non quel pipistrello di cartone che aggredisce Andrea Checchi all'inizio. Bava accenna un sorriso di autoderisione, ma è già nostalgia anticipata: sa che film come la maschera del demonio non si potranno più girare."

(Alberto Pezzotta) [4]

 

"L'esordio registico di Bava mostra, sin dal prologo precedente ai titoli di testa, alcune delle caratteristiche che marcheranno a fondo il suo stile: la sequenza - l'esecuzione di Asa - si svolge in una radura avvolta nella nebbia e circondata da pochi alberi morti; la luce, tenue e grigiastra, si diffonde uniformemente nell'ambiente e la macchina da presa alterna inquadrature fisse e strette (obbligate in un set che simula una ripresa in esterni) a lenti e avvolgenti movimenti che accompagnano i personaggi. Ad un ordine dell'inquisitore, il carnefice prende la maschera il cui interno è pieno di aculei e la spinge verso il volto di Asa; è qui allora che Bava alterna due soggettive, una di Asa (la maschera sembra andare direttamente verso la macchina da presa) e una della maschera stessa (la mdp si avvicina lentamente al volto della strega). La regia 'oggettiva' delle prime inquadrature cambia allora improvvisamente registro e introduce un tipo di movimento che si ripeterà per tutto il film, uno sguardo che non appartiene né ad un personaggio né ad un punto di vista neutro, ma che sembra aderire di volta in volta ad un oggetto diverso o che, semplicemente, crea un punto di vista altro ed inquietante, primo esempio di quella 'Entfesselte Kamera', macchina da presa scatenata ed espressionista che in maniera sempre crescente Bava sviluppa nei suoi film. Ma il movimento improvviso ha, come polo opposto e necessario, l'immobilità, il congelamento altrettanto improvviso dello sguardo. È qui, nel bianco e nero, poco contrastato del film (che immerge tutto, cose e uomini, in una quasi indistinta atmosfera grigiastra), che emerge soprattutto il volto doppio ed inquietante di Barbara Steele (che Roger Corman, dopo averla notata in questo film, chiamò per il suo Il pozzo e il pendolo). È a lei infatti, che offre numerosissimi primi piani, ora accentuandone lo sguardo folle e gelido (quando interpreta Asa), ora sottolineandone l'espressione smarrita e fragile (nella parte di Katja), ma mantenendo comunque un'ambiguità di fondo nel suo volto, grazie al quale il registro attoriale della Steele non mantiene mai totalmente separati i due personaggi (basti pensare alla prima apparizione di Katja, con due levrieri al guinzaglio che si staglia sulle rovine della tenuta dei Vajda, o alla confusione di Gorobec, che rischia di uccidere Katja scambiandola per la sua antenata). L'inquietudine del film nasce soprattutto dalla non distinzione tra gli elementi, tra il bene e il male, tra il giorno e la notte, tutti immersi nella stessa atmosfera di decadenza e di morte, di possessione ed esorcismo. Racconterà anni dopo Barbara Steele che, durante le riprese, Bava voleva che tutti vestissero di nero, anche i tecnici, ulteriore riprova della volontà di mantenere, nel set come nelle inquadrature, una atmosfera indistinta che non presenta scarti di luce, ma solo gradi diversi di oscurità, in cui lo sguardo dello spettatore non trova mai momenti di riposo."

(Daniele Dottorini) [5]

 

"La versione europea de La maschera del demonio era diversa da quella americana: aveva un'atmosfera incredibile, con tonnellate di fumo, castelli della Moldavia e un grande senso del macabro: inquadrature di occhi che uscivano dalle orbite e scorpioni che mangiavano esseri umani. Anche se molti di questi effetti furono attenuati e ammorbiditi per il pubblico americano, erano comunque sbalorditivi per l'epoca. Non dimenticherò mai il volto di Barbara Steele imprigionato dalla maschera, il cui interno era rivestito di spilloni. Ed era solo l'inizio, la sequenza prima dei titoli di testa. Se la nebbia fosse scomparsa dal set di un film di Mario Bava, con ogni probabilità si sarebbero visti un bel po' di cavi, impalcature per le luci e altri elementi che, in genere, non si dovrebbero vedere. Secondo la leggenda, la sequenza della carrozza della morte fu girata in ralenti perché il set era troppo piccolo per portarvi dei cavalli e farli galoppare da destra a sinistra. L'unico modo per avere una scena abbastanza lunga era riprenderla a rallentatore. La maschera del demonio propose un'atmosfera insolita per l'epoca, incredibilmente lugubre, e uno stile che ebbe successo e condizionò molte delle scelte fatte poi da Bava. Gli piacevano le maschere e le 'mani del sadico', tant'è che ritroviamo questi elementi anche in alcuni film successivi, laddove morte e bellezza vanno a braccetto, come se l'una fosse equiparata all'altra. Il cinema di Mario Bava aveva una qualità genuinamente perversa che all'epoca però passò inosservata. È sconvolgente - oggi che rileggiamo i suoi horror in maniera meno ingenua, e scoviamo i dettagli più 'turpi' - pensare che negli anni '60 erano tranquillamente proiettati negli spettacoli del mattino riservati ai bambini. All'epoca il cinema americano dell'orrore era dominato da Roger Corman e dalla Hammer Films, una società inglese che realizzava remake di vecchi horror della Universal. Corman in particolare stava lavorando alla serie tratta da Edgar Allan Poe. Erano film molto stilizzati, girati soprattutto in teatri di posa, non molto diversi da quelli che avrebbe realizzato poi Bava. Sicuramente ci fu una sorta di impollinazione reciproca, visto che lavoravano entrambi per la stessa società. Ovviamente, l'impronta europea dei film importati dall'estero era più forte di quella dei film 'europei' realizzati in America dalla AIP. A mio avviso questo è uno dei motivi per cui i film di Mario Bava si distinsero dal resto e il cinema horror italiano diventò un genere a sé. C'erano stati tentativi precedenti come I vampiri (1957, di Riccardo Freda) e un paio di altri film, ma non attecchirono. Ci riuscì La maschera del demonio: il film ebbe un successo fenomenale in America; in Inghilterra, se non ricordo male, fu censurato e proiettato solo molti anni più tardi. Jim Nicholson e Sam Arkoff - i proprietari della AIP - restarono così soddisfatti da decidere che Mario Bava avrebbe potuto continuare a lavorare insieme a loro. Si apre così il capitolo successivo della sua carriera: quello in cui realizzò film italiani con una partecipazione americana. Infatti, dopo 'Black Sunday', arrivò un altro film con la parola 'black' nel titolo: Black Sabbath. L'abilità artistica dimostrata da Bava ne La maschera del demonio, girato in bianco e nero, fu ulteriormente valorizzata ne I tre volti della paura, che rappresentava il meglio della fotografia a colori dell'epoca."

(Joe Dante) [6]

 

"Alcuni esegeti de La maschera del demonio hanno visto nel doppio personaggio di Barbara Steele l'incarnazione della Madonna e della prostituta. Questa ambivalenza del ruolo femminile è piuttosto comune nei film italiani e non sono sicuro che Bava volesse avvolgere il personaggio di questa aura di ambiguità; piuttosto, sembra prendere spunto da una tradizione antichissima, quelle delle fiabe dove sono in opposizione due figure, la giovane principessa e la strega cattiva. A voler essere più precisi, i lavori di Bava sono percorsi da un'ambiguità ancora più profonda: la donna emana charme ma allo stesso tempo suscita ribrezzo. Se ne può fornire anche una spiegazione psicologica: il matrimonio di Bava durò tutta la sua vita, dagli anni '30 fino alla sua morte, e fu un'unione piena d'affetto ma non felice. Sua moglie era una donna superstiziosa a cui non piaceva uscire né socializzare, soffriva di una specie di agorafobia."

(Tim Lucas) [7]

 

 

Ivo Garrani, John Richardson

La maschera del demonio (1960): Ivo Garrani, John Richardson

 

Visto censura [8]

 

Il 10 agosto 1960, con nulla osta n. 32584, La maschera del demonio ottiene il via libera alla distribuzione nelle sale cinematografiche con divieto di visione ai minori di 16 anni.

 

Metri di pellicola accertati: 2415 (88'40" ca a 24 fps).

 

Sinossi estratta dal verbale allegato al nulla osta 

 

Attenzione: SPOILER 

 

"Il film ci riporta alla tortura inflitta nel '700, per stregoneria, ad una principessa. Il capo dei giudici che condannava la donna fu suo fratello, da lei maledetto. Circa un secolo dopo, nel 1830, Il Dr. Choma ed il giovane Gorobec, suo assistente, viaggiando alla volta di Mosca per partecipare ad un congresso si fermano davanti ad una vecchia cappella diroccata dove scoprono il sarcofago della strega il cui viso à ancora bellissimo. Gorobec, senza volerlo, rompe il cristallo della tomba ed una goccia del suo sangue cade sul viso della strega restituendola così alla vita. Improvvisamente un lampo squarcia il cielo e scoppia un furioso temporale. I due giovani decidono di proseguire il viaggio ma s'imbattono in una bellissima donna vestita di nero. Il suo volto assomiglia stranamente a quello della strega. Ella dice di chiamarsi Katja e di essere pronipote della strega. Intanto la vendetta si va maturando. La vita al castello diventa terrorizzante. Il vecchio principe, padre di Katja, si ammala improvvisamente ed il Dr. Choma viene chiamato da un uomo misterioso che lo porta invece in presenza della strega, la quale, in un orrido amplesso, gli ordina di compiere la vendetta in sua vece. Così Choma, anzichè curare ed assistere il principe, lo uccide. Costantino, il fratello di Katja, viene gettato in un baratro; Ivan, il vecchio servo, è trovato impiccato. Anche la povera Katja, infine, si trova misteriosamente nella cripta alla presenza della strega. Qui la povera fanciulla, afferrata strettamente per un polso, si affloscia in terra senza vita, mentre la strega attira sul suo corpo mummificato tutta la bellezza di Katja, per farsi poi scambiare per lei. Il Pope del villaggio, sollecitato da Gorobec, svela il significato della scrittura di una icona: bisogna colpire l'occhio sinistro della strega e di tutti quelli che essa ha respo vampiri, per dare loro la pace eterna. Gorobec, comprendando quale delle due donne è la vera strega, la colpisce all'occhio con uno scalpello. Man mano che la strega si decompone Katja riprende le sue vere sembianze. Ella si stringe disperatamente a Gorobec.

 

 

NOTE

 

[1] "Mario Bava - I mille volti della paura", intervista di Luigi Cozzi (Profondo rosso edizioni), pag. 120.

 

[2] "L'avventurosa storia del cinema italiano" di Franca Faldini e Goffredo Fofi (Feltrinelli).

 

[3] "Barbara Steele - Oltre l'icona del gotico" (Shatter edizioni), pag. 42 - 43 - 49 - 51- 62.

 

[4] Dal booklet allegato al doppio DVD RipleyHomeVideo.

 

[5] "Mario Bava - Il rosso segno dell'illusione" (Sentieri Selvaggi), pag. 31 - 32.

 

[6] [7] "Kill Baby Kill - Il cinema di Mario Bava" (Un Mondo A Parte), pag. 11 - 13 - 55.

 

[8] Dal sito "Italia Taglia".

 

Barbara Steele

La maschera del demonio (1960): Barbara Steele

 

"Diciamo che un buon film dell'orrore ha bisogno, contemporaneamente, di una buona sceneggiatura, di ambienti adatti e di un uso intelligente della tecnica. Perché quello che fa sobbalzare non è un oggetto che esiste già. Altrimenti, basterebbe ricapitolare e incollare l'una all'altra tutte le situazioni paurose già viste in altri film. Il segreto sta nel modo personale con il quale queste scene vengono rappresentate: è una questione di tempi, di secondi, di inquadrature, di piani-sequenza. A volte un semplice carrello che avanza dentro una stanza inanimata, senza che nulla accada, è terrificante."

(Dario Argento)

 

Trailer

 

F.P. 31/05/2024 - Versione visionata in lingua italiana, DVD RipleyHomeVideo (durata: 84'51")

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