Regia di Daniel Burman vedi scheda film
Un uomo che passa velocemente davanti all’obiettivo della cinepresa di un filmino familiare è l’unica immagine che Ariel ha del padre, partito per Israele e mai più tornato dalla moglie e dai figli che vivono e lavorano a Buenos Aires. Il protagonista è un giovanotto che vorrebbe prendere il passaporto polacco per trasferirsi nel Vecchio Continente e per riannodare i legami con la terra d’origine della famiglia ebrea che si è rifugiata in America Latina per sfuggire all’Olocausto. Il mondo di Ariel, descritto dal film in svelti capitoletti (alcuni abbastanza gustosi e altri scontatissimi) si identifica con una modesta galleria-centro commerciale (sua madre vende biancheria intima femminile) con i suoi negozi e soprattutto con i suoi negozianti. Accadimenti minuti, abitudini, sguardi rassegnati e stanchi, pause pranzo, amplessi furtivi, silenzi, minimalismo da confesercenti. Una nonna che canta, una madre che si lascia corteggiare, una storia senza domani con una donna matura di un internet point, un fratello che compra e vende di tutto, una crisi economica diffusa, una gara tra fattorini. In attesa di un padre che ricomparirà (la sceneggiatura poteva evitarlo) senza un braccio e senza chiedere scusa. Una regia, poco originale, di dettagli e da bozzetto della commedia umana. Gran Premio della giuria a Cannes.
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