Regia di Massimo Piesco, Giorgio Molteni vedi scheda film
Indifendibile nella sua bruttezza, pensato e realizzato in buona fede, goffamente appeso a un tema altissimo, Il servo ungherese va sorbito per rispetto alle intenzioni, o sbeffeggiato per l’abisso tra intenzioni e risultati? Il Grande Tema è nientemeno che il lager, e visto per di più dalla parte dei carnefici, attraverso la (parziale) presa di coscienza del direttore di un campo di sterminio. Il comandante Dailermann (Arana) e sua moglie (Conti), a contatto col “servo ungherese” (ed ebreo) del titolo (Renzi), prigioniero addetto alle pulizie e cultore d’arte, scopriranno per via estetica che anche gli ebrei hanno un’anima e che l’arte vera è proprio quella “degenerata” che il regime nazista osteggia. L’idea di affrontare il nodo del rapporto tra arte e abominio nazista non era in fondo così peregrina. Ma il film stesso incarna l’opposto degli ideali estetici che declama. La messinscena è una micidiale mistura di teatro tradizionale e Tv, col peggio di entrambe. Dialoghi fluviali e didascalici (e ogni bella frase sottolineata dall’arrivo della musica), un paio di scene assolutamente “scult” (Renzi che declama Brecht al nazista impaurito, pestaggi a suon di Rossini stile drughi), inverosimiglianze che non sono stranianti ma solo confuse (mai visti ospiti di lager così pasciuti).
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