Regia di Kim Ki-duk vedi scheda film
Indirizzo sconosciuto sta a Soffio come un cespo d’erba selvatica sta ad un bouquet da sposa. Questo Kim ki-dik della prima ora, così duro, acerbo e crudo, parla il linguaggio aspro e cruento della brutalità nel descrivere un’umanità spezzata dallo scontro tra culture. Nella Corea del dopoguerra, a certe usanze barbare della popolazione locale si sovrappone l’occidentalizzazione forzata da parte delle truppe statunitensi: gli indigeni, strappati alle loro ataviche certezze, vengono attratti, dagli occupanti, verso nuove, pericolose tentazioni. La koiné coatta che segue ogni invasione è solamente causa di infelicità, perché una troppo rapida commistione, imposta con la violenza e non desiderata, non ha il tempo di maturare in un’opportunità di rinnovamento e crescita comune. La guerra, per sua natura, coltiva la diversità come motivo di odio, e la pace ne raccoglie il lascito sottoforma di pregiudizio e rancore. Così lo straniero rimane inviso in quanto tale, anche se, apparentemente, è venuto a combattere per la nostra causa: è l’elemento esterno che è intervenuto nostro malgrado, interferendo con le nostre tradizioni e portandoci, magari, insieme alla vittoria sul campo, doni allettanti che non gli abbiamo mai richiesto (come ciò che il soldato americano offre alla giovane Eunok), o illusioni che finiscono per farci male (come quella che ha spezzato al cuore alla mamma di Chang-guk). L’ibridazione culturale è un processo che segue i tempi lunghi della reciproca conoscenza e conseguente accettazione: non avviene a comando, per innesto artificiale. Nello scenario ritratto in questo film, il nuovo si inserisce sul vecchio come un corpo estraneo e mostruoso, come un autobus rosso adibito ad alloggio, un occhio di carta applicato al viso di una donna, un flacone di LSD nella cartella di una collegiale, o frammenti di slang americano messi in bocca a giovinastri asiatici: una grottesca composizione pop art di simboli del cosiddetto progresso che non porta, però, alcun concreto arricchimento, e crea, invece, un grande senso di alienazione. Al di sotto di questa finta patina di modernità i coreani rimangono saldamente attaccati alla propria carne, a quella di cui tradizionalmente si cibano e che macellano con particolari tecniche, come a quella che li ha partoriti, o a quella che, sia pur imperfetta e segnata dalla sventura, è oggetto del loro istintivo e sincero amore. La loro vita è impastata di sangue e fango, è crudele e povera, però è autenticamente radicata nella terra, a cui chiedono tutto e da cui tutto ottengono, al di là delle regole della civiltà, che resta, ancora, forse un incubo, forse un miraggio, comunque sfuggente, e, soprattutto, impossibile da capire.
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