Regia di Kim Ki-duk vedi scheda film
A scanso di equivoci, è sempre bene precisarlo, è tutto indirizzato sulla strada dell’eccesso il sesto film di Kim Ki-duk. Qui non siamo affatto dalle parti degli estetizzanti “Ferro 3” e l’”Arco”. Qui gli scoppi di esacerbato furore calato in una realtà tendente al rosso sono destinati a squarciare il silenzio a più riprese, incrementati dalle contrapposizioni conflittuali sempre più manifeste, dalle improvvise scintille che scoccano nel silenzio di menti votate all’autodistruzione, dalla passione deviata che nasce dalle disarmonie elettive, il tutto delimitato da uno squarcio di paesaggio (dis)umano all’ombra di guerre simulate e da un conflitto madre-figlio che perviene a picchi di atavica disperazione. Le “Stars and stripes forever” con la loro (falsa) magica formula del benessere rimangono tabù per il popolo coreano. Il miraggio americano si respira a stento in una fotografia ormai ingiallita che risale ad anni addietro, forse secoli, realtà da tempo archiviata, preclusa a questo mondo angusto, forzatamente circoscritto nel suo angolino di cupa disperazione. Con gli ossequienti cani assurti a simbolo di peccaminosi compagni di giochi o di vittime sacrificali possedute da involontari scoppi di nemesi. Un Kim Ki-duk dunque che si prefigge di mostrare senza raggiri le contraddizioni della sua terra e la lotta quotidiana per la vita intinta nel duro calice della sopraffazione reciproca, intesa come un’ideale adeguamento alla “Korean way of life”, un modo di vivere il proprio quotidiano in maniera perennemente precaria, tra non ritorni (al mittente) e ritorni di forme forzatamente parossistiche. Un Kim Ki-duk che descrive la violenza del suo popolo come una necessità strettamente peculiare alle esigenze dell’individuo, come uno scoppio di ataviche contraddizioni acuite da una totale chiusura mentale verso qualsiasi forma di comunicazione intraumana, quasi un rituale a volte, un richiamo al rito primigenio del sangue insito nelle stesse viscere dei suoi personaggi, sempre pronti a fronteggiarsi in nome di un’inveterata frenesia collettivizzata. Un Kim Ki-duk che (purtroppo) cede nel finale alle suadenti lusinghe delle sirene tentatrici inneggianti al richiamo della forza mistica, alla suggestione del linguaggio del corpo (alias violenza), sommergendo i suoi personaggi in un parossistico eccesso di zelo distruttivo elevato all’ennesimo. La fervorosa quadruplicazione dei caratteri psicopatici presenti sulla scena se da un lato contribuisce ad incentivare l’eccesso di spettacolarizzazione, dall’altro finisce per togliere verosimiglianza all’intreccio ed a confondere altresì lo spettatore che si ritrova a perdere di vista il senso della direzione oltre ad essere parzialmente distolto dalla visione di autentici toni da tragedia greca evocati dalla sublimazione del dolore materno. E proprio a causa della parziale deriva narrativa finale, innescata da una sorta di reazione a catena della follia umana forzatamente indotta sulla soglia della ridondanza, è resa ancora più evidente l’impossibilità di una valutazione oggettiva di un elaborato che per tre quarti della sua esistenza ha aperto alla fantasia notevoli squarci di buon cinema. Senza nulla togliere ovviamente alla grandezza del Nostro.
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